Non s’erano ancora conosciuti, tremila e centrotredici giorni fa, e già sapevano che sarebbero stati fatti l’uno per l’altro. Pensarono subito che fosse amore, mica un calesse: e ora che sono trascorsi nove anni, e tra di loro non è mai esistita una (vera) crisi, nella leggerezza di quest’epoca vissuta assieme c’è un rigagnolo d’emozione che fa da sfondo e ne riempie l’atmosfera. Nella faccia da scugnizzo che ha accettato di confessarsi con il Corriere dello Sport-Stadio, Dries Mertens porta i segni del proprio vissuto – i 143 gol, i capolavori che sembrano strappati da una galleria d’arte fiamminga, e varie altre cose ancora – ma lascia che restino adagiati ai confini di un intimismo che ne rivela i tratti umani, persino i sentimenti nei confronti di quella Napoli che l’ha accolto e l’ha adottato, fino ad eleggerlo a cittadino onorario di nome Ciro. In questo processo identitario, tra ciò ch’è stato e quel ch’è divenuto, Mertens ha scavato il proprio percorso, la sua dimensione, il desiderio di non chiedere a se stesso nient’altro che non sia ancora e solo Napoli: «Spero che sia questa la mia ultima tappa calcistica». Come una lettera lanciata tra le onde, in una bottiglia, con dentro l’unico messaggio che si possa immaginare.
Come la chiamiamo, Ciro o Dries? «Vada per Dries»
Che a Napoli sbarca nel luglio del 2013 «E che dal primo momento ha avvertito un’attrazione fatale per la città, per la gente. Qui ci sono nove anni ed un quarto della mia vita: ci sono stato, e ci starò, sempre bene, perché ho immediatamente avvertito affetto. Sono stato fortunato nella scelta».
Disse subito, il primo giorno: «l’ho fatta con il cuore» «Non sapevo che sarei andato ad abitare a Palazzo Donn’Anna e per chi conosce quel luogo c’è poco da spiegare. E’ un posto che ti prende l’anima, io al mattino mi sveglio e vedo il mare, ho un orizzonte che ti conquista, se è possibile posso salire in barca, andare ad Amalfi o a Capri, respirare, immergermi in acqua, vivere. Nella drammaticità del Covid e di questa fase dell’esistenza dell’universo ho potuto scoprire altro, ho apprezzato ancora di più quel luogo, casa mia, mi sono costruito, grazie a mia moglie, nuovi interessi, ho cominciato a cucinare, seguendo i suoi consigli».
La famiglia si sta allargando «Due mesi ancora, ci siamo»
Nome già scelto ma non si rivela «Siamo duellando io e Kat, ho un po’ di tempo ancora per provare a convincerla, anche se ho il sospetto che alla fine vincerà lei. Però me la gioco».
Dries è già un altro Mertens «Sono cambiato, anche profondamente, da quando ho saputo che sarei diventato papà. E come uomo mi sento diverso, più attento e più responsabile, anche più sensibile. Ho sempre ritenuto di essere sufficientemente maturo, pur sentendomi un ragazzo, ma adesso è arrivato un momento nuovo, in cui sono chiamato a completarmi. E mi è venuta naturale questa trasformazione. Sento ingigantirsi il mio rispetto verso le donne, che ho sempre guardato con ammirazione, però la gravidanza di Kat ha accentuato questo lato teneramente sconosciuto della mia personalità».
C’è un Dries privato, quello fuori dal campo, che in realtà resta il personaggio pubblico della domenica «Napoli mi ha conquistato, d’impatto. Ho un rapporto speciale con chiunque, il ragazzo del bar di via Posillipo, quello dove vado a mangiare la pizza, perché c’è empatia con la natura stessa di questa gente. Io sono sempre Dries, mai Mertens, quando vado in giro a gustarmi le bellezze di Napoli».
Dalla quale non vorrebbe staccarsi: s’immagina il suo futuro? «Io sto qua. Ho un contratto con opzione a favore del club. Aspetto e poi si vedrà. So che esistono due strade, una è quella dell’addio. E so anche che nel momento in cui sarà inevitabile salutarsi, a casa Mertens piangeranno tutti, io, Kat, anche il bambino, mi creda. Io qui sono un uomo felice e lo è la mia famiglia. Ma bisogna essere realisti e pratici: il Napoli potrebbe non avere più bisogno di me, e spero non accada subito, però nel caso in cui questo si dovesse verificare, io tenderò la mano, sarò grato per avermi dato la possibilità di appartenere a questo mondo e di avermelo fatto apprezzare. Non dimenticherò un solo istante».
La strategia per il rinnovo è chiara «Segnare tanto, così Adl sarà costretto a tenermi. Più gol faccio e più lui capirà che varrà la pena farmi firmare. E poi ho l’asso nella manica...».
Se possiamo, sveliamolo. «Invece di andare in giro a buttare soldi, per compare un attaccante nuovo, gli concedo la possibilità di tesserare mio figlio. Ha un centravanti giovane, con una carriera lunga davanti a sé. Ed io non devo mollare né la casa, né tantomeno Napoli».
Niente dollari, prima di uscire di scena? «Non mi interessano. Mi basta Napoli»
Proviamo anche a parlare di calcio... «Rispondo a qualsiasi domanda».
La squadra più forte nella quale ha giocato? «Quella del secondo anno di Sarri, quella che andò vicinissima allo scudetto, ché se fai 91 punti ti tocca quasi per diritto».
Se le fanno il nome di Orsato cosa pensa? «Che non bisogna avere rimpianti. Mi capita raramente di pensarci, e certo un po’ fa male, come quando mi capita di ricordare del gol in fuorigioco concesso al Dnipro in semifinale di Europa League. Ma a me non interessa guardarmi alle spalle, né davanti: vivo il presente».
Cosa c’è scritto, allora, nel diario del giorno? «Che domenica dobbiamo affrontare la Salernitana, alle 15, un orario ormai insolito. E bisogna batterla. Abbiamo buttato via troppi punti e ci sono stati tolti tanti giocatori, nei momenti-chiave. Se il secondo Napoli di Sarri è stata la squadra più bella, questa lascia dentro di sé tante domande: dove saremmo se Covid, infortuni e Coppa d’Africa non ci avessero sottratto tutti quei compagni?».
Provi a darsi una risposta da solo «Guardi chi siamo: Koulibaly, Fabian Ruiz, Insigne e Zielinski nella loro fase più matura; un Di Lorenzo di cui sono innamorato, perché le gioca tutte; Rrahmani e Juan Jesus che sembrava – e ribadisco sembrava – dovessero essere le alternative al blocco titolare, che giocano a questi livelli; il ritorno di Ghoulam… Ci metta gli altri, poi: questo è uno squadrone, che però ha dovuto pagare un prezzo altissimo alla sfortuna. L’Inter è la più forte, sta avanti, ha un vantaggio, ma non è finita».
Cosa è stato Mertens? «Un buon giocatore, non un fenomeno. Ma uno che ha lavorato e si è impegnato per migliorarsi».
Una bella persona, se consente, che a Bologna accoglie Osimhen, cal cambio, con un sorriso.
«So quanto vale e cosa può diventare. Dipenderà molto da lui, dalla sua capacità di gestirsi. Ha un potenziale spaventoso, già adesso incide come pochi, ed è ancora giovanissimo. In due anni ne ha dovuto passare troppe. Ma adesso toccherà a lui».
Il più grande con il quale ha giocato? «L’Higuain dei 36 gol non ha eguali. Io sono compagno in Nazionale di De Bruyne e di Lukaku, che rappresentano eccellenze. Ma il Pipita di quella stagione faceva di tutto e giocava per la squadra. Fu un mostro».
Mertens non sceglierà mai il suo gol più bello, anche perché non sarebbe facile «E pure perché non ho ancora finito. Devo mettere al sicuro il mio record e quindi se DeLa vuole e me lo consente, mi piacerebbe arrivare a 250. Però posso dire che la prima rete, quella a Firenze, il duetto con il Pipita, ha un posto particolare. Giocavo poco, in quei momenti, o io o Insigne, e dopo aver segnato andai ad abbracciare Colombo, il nostro terzo portiere, che tempestavo di tiri in allenamento. Lui mi teneva su: aspetta e vedrai. Ebbe ragione lui».
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«Spalletti. Così mi fa giocare anche domenica…».
Quando Sarri la lanciò come centravanti, cosa gli disse? «Vado anche in porta. Perché io in panchina ci sto male. La sorte quella volta fu carogna con Milik, al quale auguro tutte le fortune che merita. Giocatore fortissimo. Ma si fece male, lui che era l’erede del Pipita, e così mi ritrovai là in mezzo. Non è andata male, vero?».
Il suo Belgio a volte ricorda il Napoli..: sul più bello, si smarrisce «A volte la differenza è in quelli che sembrano dettagli. Se ripenso alla gara con la Francia, la semifinale mondiale del 2018: prendiamo un angolo e finisce tutto, perché certe partite sono così. E se dall’altra ci sono Mbappé, Giroud, Pogba, Kanté, Griezmann può succedere di perdere».
Stanno pensando al Mondiale ogni due anni… «Potevano pensarci prima, per me diventa tardi».
Cosa farà quando smetterà? «Viaggiare tanto e poi impegnarmi con i giovani calciatori. Ho letto che sei su dieci, quando lasciano, si accorgono di aver dilapidato la loro ricchezza e parecchi si ritrovano in difficoltà. Io ho avuto una famiglia che mi ha illuminato e una moglie che ha condiviso con me il processo di crescita. Non posso pensare che si buttino via così i propri sacrifici. Non sarei un manager, chiariamolo, ma mi vorrei inventare una figura nuova, fedele e rassicurante, che sappia consigliarti e garantire un gioioso distacco dalla carriera».
Un «vecchio» amico «Ma io non sono vecchio. Lo scriva, mi raccomando…».
A cura di Antonio Giordano (CdS)