Insigne ed il Napoli, così non vince nessuno. Ci perde anche la Nazionale

Piaccia o no, Insigne è ancora il numero 10 della Nazionale campione d’Europa. È irrilevante che vada a giocare a trent’anni in un campionato finto? La domanda interpella il Napoli e i suoi tifosi, ma non solo. È in discussione l’intero sistema calcistico italiano, di fronte a una transizione da un mercato di vacche grasse a un mercato di sussistenza e risanamento. Che fa fatica a chiudere il rubinetto degli sprechi del passato, a reinventarsi e a ritrovare nuovi equilibri.

La voglia di far carriera

Intendiamoci, nessuno può impedire a un atleta professionista di dirigere la sua carriera verso gli obiettivi che ritiene più soddisfacenti. Ma se una «bandiera», nel cuore della sua maturità calcistica, punta a una prospettiva di mero arricchimento, c’è qualcosa che non funziona. Perché Insigne non è uno qualunque, ma uno di quei giocatori capaci di rappresentare l’identità e la cifra estetica di una squadra. Di più, è il personaggio simbolo di una napoletanità sportiva che, dopo Maradona, non ha più conosciuto il successo.

La sua partenza chiude un decennio di aspettative bruciate sull’ultimo miglio, che la sua classe tuttavia ha contribuito a fare crescere nella piazza. Rinunciare a lui significa reinventare il Napoli. Che questo accada nel mezzo di un campionato in cui gli azzurri hanno ancora chance di giocarsi il titolo non è circostanza che incoraggi. Se Insigne firmerà con il Toronto, concluderà la stagione a Napoli, ma è difficile pensare che abbia le motivazioni per affrontare al meglio la volata scudetto.

Tra le parti non vince nessuno

In questa vicenda non ci sono vincitori. Quando un calciatore come Insigne divorzia nel modo che sta per accadere, il primo sconfitto è il club. Perché si rende visibile che la fedeltà ai colori sociali non vale nulla; che il patto fiduciario tra società e atleti è inesistente anche per un campione che ha segnato un’epoca. È un danno morale, ma anche commerciale. Perché l’attaccamento alla maglia è un valore nell’impresa calcistica. È vero che è finito il tempo dei Rivera, degli Antognoni e perfino dei Totti, ma il divorzio di un trentenne all’apice della carriera, che non lascia per la Juve, per il Barça o per il Real, ma per andare a giocare a Toronto, è una figuraccia per il Napoli.

L’epilogo di questa vicenda mostra in controluce anche un pregiudizio interno al modo di concepire il calcio. Nonostante le sue dieci stagioni in azzurro con una continuità di gioco, gol e assist da fare invidia, Insigne è ancora considerato nel suo ambiente un giocatore incompiuto, quando non un mezzo giocatore. E se non avesse avuto la fiducia di tecnici innovatori come Zeman, Sarri e Mancini, e da ultimo Spalletti, probabilmente sarebbe rimasto un incompreso. Per emergere ha dovuto sfidare prima la sua fisicità, poi il clima di sfiducia da cui era circondato. Ma, anche quando è riuscito a far sua la fascia di capitano, ha sempre avvertito un residuo scetticismo attorno a sé.

Soldi o calcio che conta?

La sua fuga da Napoli e dall’Italia sarebbe una risposta a questa sofferta percezione, ma, è doveroso dirlo, un errore anche per lui. Giocare in America è una rinuncia a competere nel calcio che conta, dove il fantasista azzurro, grazie alla sua tecnica e alla sua intelligenza, avrebbe ancora molte cose da dire. I soldi canadesi à gogo possono in cinque anni trasformare un già ricco in un ricchissimo calciatore, ma il superlativo non vale quanto l’impronta che una grande avventura sportiva lascia nella storia di un club e nella memoria di una comunità.

Insigne, che di Maradona legittimamente si considera uno degli emuli, dovrebbe ben sapere quanto intensa e quanto ricca sia l’eredità di affetti del Pibe, di cui in questi giorni Paolo Sorrentino ci consegna un affresco poetico con il suo «È stata la mano di Dio». Tra venti o trent’anni il ricordo del tiro a giro nella memoria dei posteri darà più consolazione al suo dopo carriera di quanto non farebbero dieci milioni di dollari.

Si dovrebbe trovare una soluzione comune

Ci pensi, Lorenzo. E ci pensi anche De Laurentiis, che pure da tempo è tentato dal separare il club da questa sua creatura, fedele tanto nel genio quanto nel limite all’identità di una città. Il Napoli, che Spalletti porta a un acme di gioco per la prima volta oltre l’asticella di Sarri, è una squadra che si nutre della fantasia di Insigne anche quando Insigne, come nelle ultime gare, è assente.

E ci pensino, da ultimi, tutti i signori del calcio, i presidenti italiani, i vertici di Lega e Federazione, i tecnici più autorevoli. Difendere e sostenere la Nazionale e i suoi uomini chiave è nel loro interesse. Il movimento sportivo è davanti alla cruna più stretta della sua storia: lo spareggio che rischia di tagliarlo fuori per la seconda volta consecutiva dal Mondiale, mentre infuria la crisi finanziaria. Si vince solo remando nella stessa direzione, con gli uomini migliori. Lorenzo Insigne è uno di questi.

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Fonte: CdS

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