Dieci stagioni, 411 presenze, 114 goal con la maglia del Napoli. 499 partite e 160 goal in carriera con squadre di club. 53 presenze e 10 reti con la nazionale, mai nessuno nella storia del Napoli ha fatto niente di simile. Altre 15 presenze e 7 marcature con l’Under 21. Se Insigne fosse argentino, brasiliano, uruguagio, sarebbe una bandiera e basta. Se un qualsiasi giocatore nato altrove, e costato 2500 euro, fosse il quarto marcatore di tutti i tempi nella storia del Napoli, lo si considererebbe una leggenda. Senza aggiungere una parola. Ma nato altrove è purtroppo la parola chiave. Perché invece Insigne è nato qua: è napoletano. Inutile girarci intorno: il problema è esattamente questo. In una città che declina il nemo propheta in patria con una ferocia neanche troppo sorprendente. Perché condita di una subalternità lunga 160 anni. Di conseguenza, se Insigne fosse argentino, brasiliano, uruguagio, nessuno starebbe lì in agguato, con la vanga ed il secchio di letame. Nessuno discuterebbe delle sue presunte carenze da leader. Se non ci fosse, in chi giudica, un patologico complesso del Masaniello. Quando sei incapace di farti collettivamente popolo, hai bisogno del capopopolo. È una conseguenza naturale della subalternità. Perché ti ritieni debole ed inferiore. Ed allora serve un uomo dalle qualità superiori. Che tu credi di non avere. Hai bisogno pure del boss. Che è la variante criminale della stessa patologia dell’uomo forte. Insigne invece non sarebbe forte abbastanza. Lo dicono quelli che una volta hanno fischiato persino Maradona. Perché hanno vizi da generale. E paghe da caporale. E, se hai una paga da caporale, come puoi tollerare che Insigne guadagni cifre che tu non vedrai mai in tutta la tua vita? Va bene finché questo privilegio tocca a un altro. Nato altrove. Non se, invece, è prerogativa di uno che è nato dietro casa tua. Insigne, in sostanza, con il suo successo, è lo specchio del fallimento di tanti. Ed è intollerabile guardarsi allo specchio e rendersene conto. È perciò un bizzarro destino, quello di Insigne. La parte più deteriore del nord, lo attacca perché lo vede come un simbolo di Napoli. Se lo chiama topolino dai piedi deboli e col tiro a giro noioso, in realtà sta rivolgendo l’accusa a tutti i napoletani. Dimenticandosi dei piedi di merda dei suoi giocatori. È il fastidio nei confronti di un napoletano che indossa la maglia numero 10 della nazionale. Lo stesso fastidio che provoca il Napoli in lotta per lo scudetto. Perché noi siamo considerati degli intrusi, dalle classi dirigenti di questo paese. Lo stesso fastidio che Diego Maradona arrotolò, per infilarglielo nel più sacro dei loro buchi. Il Maradona che avete fischiato. Non sorprende, quindi, che invece di fare quadrato intorno a Lorenzo, anche a Napoli siano in molti a scavargli la fossa sotto i piedi. È di nuovo l’incapacità di essere popolo. Di compattarsi di fronte agli attacchi esterni. Facendosi invece complice e sponda di chi, da oltre un secolo e mezzo, ha riservato miseria, sottosviluppo ed emigrazione alla tua stessa gente. Lorenzo viene dalla miseria. Ma ha la colpa imperdonabile di essersela lasciata alle spalle. Senza essere emigrato. Senza appartenere neanche a quella città dei notabili. Che lo irride perché, ancora una volta, lo elegge a simbolo di qualcosa, di quella Napoli popolare, che deve stare al suo posto. E così Lorenzo insigne, che non è argentino né brasiliano né tantomeno uruguagio, diventa l’esempio perfetto di una patologia tipica dei popoli colonizzati. Quella di non saper essere fieri di se stessi. Neanche quando un ragazzo, che non aveva nemmeno i soldi per le scarpe, mette tutti quanti in riga. E segna 177 goal in carriera. Ed è questo che mi rattrista. È questo che fa di molti, dei miserabili. È questo che continuerà ad essere la catena alla quale hanno legato la nostra gente. Ed invece di liberarcene, la usiamo per strangolare noi stessi.
Da Facebook, Vincenzo Moccia, Curva A Napoli