«È stato il re della domenica, il re della città», dice Erri De Luca ricordando Maradona a un anno dalla sua morte. «Un anno senza», come titola il testo che sulla sua pagina web ha voluto dedicare a chi – nelle sue parole – è stato «il più felice guizzo guappo e prestigiatore del calcio di ogni tempo».
De Luca, per dare questo giudizio deve averlo visto giocare da vicino.
«Due o tre volte allo stadio San Paolo di Napoli. Non di più. Ma ammirandolo ho potuto ben comprendere il suo straordinario valore di calciatore. Con il pallone al piede era capace di fare di tutto, il suo sinistro è stato il più sofisticato strumento di precisione della geometria e giocoleria del calcio».
Lei afferma che non si trattava soltanto di talento.
«Certo. Maradona fu atleta in avanzo sui tempi, si esercitava in un allenamento doppio che metteva una molla dentro le gambe corte lanciate a mulinello più che a corsa. Divorava lo spazio».
«Maradona Armando Diego è venuto a Napoli per vincere? Sì, anche quello, ma non quanto poteva. Io sono convinto che senza una quota di spreco non si dà grandezza. Grandezza è anche infischiarsene dei risultati, delle somme tirate. Vuol dire, invece, badare di più all’attimo felice del palleggio, allo scatto, al passaggio che lascia a bocca aperta».
E però, uscito dal campo di calcio, c’è stato anche il personaggio Maradona.
«Il re della domenica in una città che è profondamente monarchica. Napoli ha avuto Maradona non soltanto come re, ma come un anello al dito, un anello nuziale. Si è immedesimato con la città, l’ ha vissuta sentendosi assolutamente napoletano».
Perché oltre che monarchica Napoli è una città anarchica? Maradona è stato decisamente un anarchico.
«Vero. Napoli è una città anarchica, dove si muovono tanti vicerè, che aveva bisogno di un monarca della domenica per provare a riscattarsi. Se oggi tutti lo considerano il più grande di tutti è anche per il senso che è stato prodotto dai suoi anni napoletani».
Anni in cui sono mancate le contraddizioni, le zone d’ombra, gli slittamenti nella sua vita da ribelle.
«Maradona assomigliava a Napoli. Come lui, la città poi si è lasciata andare, sazia del trionfo, che dev’essere breve, se no opprime. Napoli ha avuto i carati preziosi dei suoi piedi a titolo di restituzione».
Un risarcimento del destino, insomma?
«Napoli città anarchica ha avuto Maradona in dono dall’America del Sud, a contropartita dei milioni di emigranti salpati dal molo Beverello per Rio De La Plata. Maradona veniva dalle magre Americhe del Sud, suddite di Nord. Veniva dalle tirannie: argentino come il tango, è arrivato a far sgranare gli occhi e spellare le mani dagli applausi al vecchio continente».
«Gli anni ’80 hanno rappresentato per Napoli il periodo in cui cambiava i suoi connotati, si staccava dal Sud per agguantare un lembo di Nord. Maradona ha sublimato questa tensione e gli scudetti hanno contribuito a proiettare la città su una scena diversa. Perciò la sua vicenda si intreccia in maniera tanto determinante con il percorso compiuto dalla città in una fase così critica».
Allora, il napoletano Maradona mostrava grande attenzione pur per la città che non era illuminata dai riflettori.
«Ha amato le periferie perché lui veniva dalle periferie del mondo. Conosceva quei luoghi segnati da uguali ferite. Gli appartenevano e in modo naturale ha mostrato cura e interessi per chi li abitava. Lo ha fatto spesso in silenzio, attraverso gesti autentici e per niente costruiti».
Per tanti la sua epopea ha diviso l’esistenza in due, prima e dopo Maradona.
«Sotto il profilo calcistico non può non essere così. Per quanto riguarda le esistenze, probabilmente c’è anche dell’altro a determinare un prima e un dopo».
Ricorda l’affermazione di Bertolt Brecht? Povero quel popolo che ha bisogno di eroi. Vale anche per Napoli e Maradona?
«Perché? Penso che a volte si ha bisogno di eroi, aiutano. E se sono come Maradona è meglio. La sua morte lo ha reso ancora più grande. È il trionfo breve a restare perfetto nella memoria. Non le dozzine di scudetti, ma il paio».
G. Picone (Il Mattino)