Dove vi siete incontrati la prima volta? «All’hotel Royal, nei suoi primi 6 mesi alloggiò in albergo. Serviva una persona che conoscesse bene Napoli e quando me lo presentarono gli diedi ovviamente del lei, chiamandolo signor Maradona. Lui mi rispose No, io sono Diego. Era il 1984 e da allora quella umanità lo ha sempre contraddistinto».
Che ricordo ha di quei tempi? «Eravamo insieme da mattina a sera, lo andavo a prendere e lo accompagnavo agli allenamenti, in trasferta o in qualsiasi altro posto, così come sua moglie Claudia e le loro figlie. Ovunque andassimo era un tripudio di festa, tanto che spesso rincasavo con le camicie rotte a causa degli assalti di tifosi e giornalisti».
Il ricordo più bello che la lega a Diego? «È stato il mio testimone di nozze. Sin dal primo momento tra noi si stabilì un rapporto particolare: confidenziale. Di lui mi ha sempre colpito la semplicità in ogni circostanza».
Un aneddoto? «Ce ne sono tanti. In particolare ricordo un giorno che era in ritiro con la squadra a Cremona, chiamò me e Cecilia, la sua segretaria, dicendo Mi servono subito un paio di scarpette perché qui c’è il ghiaccio. Telefonammo allo sponsor in Germania, ma era chiuso. Se non mi arrivano, giocherò con le scarpette tutte nere, disse lui. Così gliele portai fin lì».
Cosa ha lasciato nel cuore dei napoletani? «Non si può descrivere. La gente amava il suo altruismo, il suo fare del bene. Ma l’amore più grande che ha lasciato nel popolo partenopeo è evidente nelle tante commemorazioni, come se non fosse mai morto».
G. Covella, Il Mattino