Mentre usciva dal proprio esilio forzato, due anni ad osservare (e studiare) il calcio dal buco della serratura, Luciano Spalletti scelse di indossare un abito blu – fresco lana d’ordinanza per una presentazione ufficiale – lasciò che il proprio corpo venisse fasciato da un’elegante camicia bianca, fece il nodo alla cravatta in tinta con il vestito e poi guarnì il discorso d’insediamento con una specie d’orazione: «Venendo a Napoli io completo il mio tour dell’anima: ho allenato a Roma, la città dei Papi, la città eterna; l’ho fatto a San Pietroburgo: la città degli zar; l’ho fatto anche a Milano, la città della moda, dell’industria, della Madunina; e ora sono qui, nello stadio in cui ha giocato Diego Armando Maradona e nella città di San Gennaro, il luogo in cui calcio e miracoli sono la stessa cosa». In questi cento giorni – iniziati l’8 luglio – che hanno (pure) qualcosa di mistico, Spalletti ha spruzzato tutto se stesso, ci ha sistemato la sua cultura calcistica e quell’autorevolezza che riempie Castel Volturno, ha infilato, e senza ricorrere alle «galline del Cioni», porzioni d’ironia utile per demolire gli spigoli ed ha semplicemente (ri)sistemato il pallone al centro del villaggio e dei pensieri spettinati che dal 23 maggio scorso riempivano Napoli d’ombre.
A Giordano (CdS)