Pecci: “Gli allenatori non fanno gol, vince chi ha la rosa più forte”

«Ma davvero credete che siano gli allenatori a far vincere le squadre? Contano esattamente al 5 per cento, al massimo il 6 per cento se riescono a dare un contributo dopo una sconfitta. E vale per Spalletti, come per Mourinho e tutti gli altri. Perché in vita mia non ho mai visto un allenatore fare gol». Eraldo Pecci, uno degli uomini d’oro dell’ultimo scudetto del Torino che domenica sbarca a Napoli, è sempre andato meravigliosamente controcorrente.
Pecci, ma almeno Juric arriva al 10 per cento? «Cosa ha detto tutto arrabbiato e offeso prima dell’inizio del campionato? Datemi i giocatori sennò non andiamo da nessuna parte. È la regole delle regole, la differenza la fanno sempre le rose e i calciatori che vanno in campo».
Ma lei un consiglio giusto da un tecnico lo avrà avuto in vita sua? «Certo, ovviamente me lo diede Bruno Pesaola. Giocavamo con l’Inter e mi disse: tu vai in campo e lascia perdere tutto, pensa solo a Mariolino Corso. Perché se non tocca il pallone lui e non lo tocchi nemmeno tu, magari vinciamo».
Insomma, se il Napoli vuole vincere lo scudetto deve sperare in Osimhen? «E su chi sennò? Se alla velocità combinerà la tecnica, ce ne sono poche di squadre come quelle del Napoli. Ma torniamo al punto di partenza: le gare e i campionati li vincono le rose, il gruppo dei calciatori. Dopo una sconfitta vedremo la capacità che avrà il Napoli di rialzarsi. Certo, ho visto le ansie, le paure, i fantasmi che sono apparsi dopo la sconfitta con lo Spartak Mosca e sono dei segnali di un ambiente che deve ancora crescere. E può farlo, perché mi sembra la competitività della serie A sia calata. E qui può dare una mano in più l’allenatore».
Finalmente. «Ma fino a un certo punto. Perché io penso che se hai vinto un Europeo come Di Lorenzo e Insigne, se sei un campione mondiale come Koulibaly la sconfitta la gestisci come facevo io: da solo. La sconfitta va masticata dentro di te, io non ho mai trovato un allenatore capace di lenire il dolore di un ko con le parole. Tutti i calciatori bravi sanno cosa fare, senza interventi esterni».
Domenica il suo Torino sarà sulla strada del suo Napoli. «Sono come due figlioli, cresciuti bene ma c’è qualcuno che fa più fatica dell’altro. Ora non si può non stare dalla parte del figliolo in difficoltà e non con quello che ha avuto successo. Ma il Torino sembra che abbia svoltato sotto il profilo del comportamento in campo. Questo perché ha cambiato calciatori, non l’allenatore».
Si aspettava il Napoli così? «Il gruppo è da tempo che vola in alto. L’allenatore sta accompagnando bene la rosa che ha. Ma alla fine vedo che in giro vincono sempre le stesse squadre, al di là di chi le allena. L’allenatore più bravo è quello a cui danno i giocatori più bravi. Alla fine è il gruppo che vince perché, Maradona a parte, nessun giocatore vince una partita da solo».
La prima volta al San Paolo? «Ricordo quella volta che diluviava, finì 0-0, e su Tuttosport scrissero: Al 40′ del secondo tempo anche Pecci riesce a disincagliare i suoi piedi dal fango. Insomma, non fu proprio una gara trionfale».
Rimpianto per andar via proprio prima dello scudetto a Napoli? «La sensazione è stata quella di aver perso qualche anno di divertimento. Stavo bene lì, avevo amici, intorno a me c’era solo allegria, voglia di ridere, eppure erano gli anni del dopo terremoto. Ho sofferto di più quando a vent’anni sono andato via da Bologna, soffrivo tanto di malinconia che la mattina mi allenavo e il pomeriggio ero al bar sotto i portici a Bologna. Non ho rimpianti, uno fa quello che può fare: i se e i ma sono il paradiso dei cogl…».
Ha ragione chi dice che a Napoli è difficile vincere? «Vero quando hai un pedigree è sempre meglio, perché vincere è come una abitudine. Quando giochi contro Platini, Tardelli e Scirea parti sempre un passo indietro… Ma non mi pare che questa serie A abbia tipi come Platini, Tardelli e Scirea. Però, basta vedere il Belgio: primo nel ranking ma lo striscione del traguardo lo taglia per primo sempre qualcun altro».
Che le pare del centrocampo azzurro? «Con Fabian e Zielinski ha gli uomini che sanno cosa fare, che guidano la squadra, indicano la via e dettano il ritmo. Anche Anguissa consente di indirizzare il gioco e non di subirlo. Perché giocar bene e comandare la partita permette di costruire le sicurezze. E poi mi pare che siano giocatori che sappiano supportare e servire al meglio Osimhen là davanti e tutti quelli che cercano il gol».
Tra poco un anno dalla morte di Maradona. «Ogni volta che aveva qualcosa da dirmi, mi chiamava in disparte e me lo diceva. Tutti si fanno belli parlando di lui, conoscerlo è stata una esperienza straordinaria».

P. Taormina (Il Mattino)

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