Il gemellaggio terminò quel pomeriggio di ottobre. Quando il Napoli trasformò l’Olimpico in un’arena, una partita in un’ impresa gladiatoria e quel Roma-Napoli in una partita da tramandare alla leggenda. Quel pomeriggio si udirono le caligae, i calzari delle legioni romane venire giù da Montemario per omaggiare quelli in azzurro. Sulla via Trionfale, a poche centinaia di metri dallo stadio, risuonarono i corni del trionfo, e si udì lo scalpiccio dei cavalli tirare un cocchio dorato lungo una strada lastricata di applausi. Da quel pomeriggio Roma e Napoli non furono più calcisticamente amiche. Accadde alla sesta giornata, con il Napoli salito a difendere il suo primato, ed onorare quel tricolore sul petto, e la Roma ad insidiare quel primato, per provare a cucire sul giallorosso quel tricolore. Poche, pochissime occasioni da rete. Molti, moltissimi scontri, e tante, tantissime mischie. Nessuno si era tirato indietro, ed ogni colpo dato è ricevuto era un presagio di zuffa nell’aria. Anche le curve fremevano. Il clima era ostile, fiammeggiava, c’era elettricità nevrotica sugli spalti. Stridevano tra loro i cori, come gladi che si abbattevano su scudi e su loriche. Una lotta fratricida che andava a diventare una battaglia tra cuori un tempo gemelli. Quando la Roma andò in vantaggio, su un corner calciato da Conti e corretto in volo da Pruzzo con una torsione in salto prodigiosa, all’angolo lontano di Garella, lo stadio era venuto giù. E si era visto Maradona scrollare il capo. Un segno di resa. E poi il Napoli perdere il filo logico della squadra campione. Careca aveva abbattuto Comi nel cerchio del centrocampo con una “capata” assassina che aveva tramortito l’avversario. Magni gli aveva sventolato il rosso sotto il naso. E poi Renica, superato in tromba da Boniek, lo aveva abbrancato da ultimo uomo. Altro rosso, Napoli in nove, Roma in vantaggio e mezz’ ora da giocare. Si era visto Diego sollevarsi le maniche. E Bagni arcuare di più le gambe. Ferrara aveva piantato le tende nell’aria avversaria, con un occhio alle controfughe giallorosse. Romano era su ogni pallone. Si era visto Giordano difendere palla come un reziario si sarebbe difeso dall’assalto di un mirmillone, e Nando de Napoli correre come un esploratore nel cuore delle difese nemiche a cercare il pertugio per assaltare. Il Napoli non era più in nove uomini, no. Sembrava essere in quindici, venti. Un intero manipolo spalla a spalla ad avanzare palmo dopo palmo. Poi si erano udite le caligae, sulla strada polverosa che scende da Montemario. E sul corner di Maradona, Francini l’aveva messa sotto la traversa. Con il Napoli in nove. I tifosi azzurri in delirio. E l’Olimpico muto. L’aria si era come cristallizzata, il tempo aveva arrestato la sua corsa. Una partita di calcio aveva richiamato in vita il passato. Poi Bagni era uscito dal terreno di gioco con il dito medio sollevato verso la Sud. ” Hic sunt leones”. Gridò quel dito medio. E Roma-Napoli non sarebbe più stata la stessa. Mai più.
Stefano Iaconis