Marcell Jacobs: “Vivo un sogno, dedicato all’Italia”

Marcell Jacobs:  «Tutto come previsto. Avevamo detto che saremmo andati in finale e ci siamo andati. Abbiamo fatto il record europeo, poi ne abbiamo fatto un altro. Ah, e poi abbiamo vinto la finale. E’ andato tutto come doveva andare».
Marcell Jacobs, che già è simpatico di suo, dopo l’impresa olimpica sui 100 metri non riesce a smettere di sorridere e di fare battute. E di parlare di se stesso usando il noi.
Marcell, ma davvero doveva andare tutto così?
«Nei miei sogni, sì. Poi è diventato tutto realtà, quindi tanto di guadagnato».
In pista è stato impressionante, ma la sensazione è che abbia vinto prima di tutto con la testa
«Sono arrivato ai blocchi pensando solo a me stesso, a correre nel miglior modo possibile senza guardare gli avversari. L’ho fatto solo sulla linea del traguardo e quando mi sono accorto di essere davanti a tutti ho urlato come un pazzo».
E poi s’è ritrovato davanti Tamberi
«Ho sentito Gimbo che strillava il mio nome prima della partenza. Ho pensato: cavolo, ce l’ha fatta!. Poi dopo la corsa me lo sono ritrovato in mezzo alla pista e sono andato subito ad abbracciarlo. Conosco la sua storia, quello che ha passato per arrivare sin qui. Abbiamo un percorso simile per certi versi: anche io sono uno che dalla vita ha preso un sacco di batoste da tutte le parti. Ieri (sabato, ndr) abbiamo passato la serata alla Play nella sua stanza e mentre giocavamo gli dicevo: Pensa se domani vinciamo. E lui: Noooo, è impossibile, non pensarci nemmeno. E’ un ragazzo eccezionale: pensare che siamo diventati campioni olimpici insieme è stupendo».
Quando ha iniziato a credere di poter vincere?
«Sapevo di essere in ottima condizione ma ho dovuto comunque chiedere gli straordinari al mio corpo. Durante il riscaldamento per la finale mi sentivo molto bene e sapevo che potevo migliorare, anche perché nella semifinale non avevo fatto una partenza eccezionale. Allora ho supplicato il mio corpo: Ti prego, fammi fare l’ultima corsa al meglio e poi ti giuro che ti lascio in pace. E mi ha ascoltato. Questo è il mio anno a quanto pare: vinco tutto quello che c’è da vincere».
Gli altri la guardavano un po’ come un oggetto misterioso?
«Ma no, anzi Kerley e de Grasse mi sono venuti subito a cercare per farmi i complimenti. Poi è stato buffo quando siamo andati a fare le foto e loro mi dicevano: Guarda che in mezzo ci devi stare tu, sei tu che hai vinto. Diciamo che era una situazione alla quale non ero abituato».
E se dovesse sentire ancora qualcuno che si domanda chi è Marcell Jacobs?
«Come chi è? Il campione olimpico dei 100 metri! Non vedo l’ora che arrivi domani (oggi, ndi) per andare sul podio, sentire l’inno e prendere la medaglia. Il record è una bella soddisfazione ma magari tra dieci anni arriva qualcuno e me lo toglie. La medaglia non me la toglie nessuno. La appenderò sul muro principale di casa mia e guardarla ogni volta sarà bellissimo.
Ha pensato che lei è l’erede di Bolt?
«Che bell’effetto! Io mi ricordo tutte le sue gare, specie quelle olimpiche. E vincere dopo di lui, praticamente con lo stesso tempo che fece a Rio 2016, è un onore grandissimo. Anche se».
Anche se?
«Quando ho visto il cronometro all’arrivo segnava 9.79. Poi me l’hanno arrotondato a 9.80. Ma 9.79 mi piaceva di più».
Non si accontenta mai. Ma ha capito cos’ha fatto?
«No. Ci metterò almeno fino alla staffetta per realizzare tutto quello che è successo. Lo so che guarderò il soffitto tutta la notte, che non riuscirò a prendere sonno. Già non ci riuscivo in questi giorni per l’emozione delle Olimpiadi, figurati adesso che le ho vinte».
Nella sua carriera è come se a un certo punto fosse scattato un click
«Nella mia testa mi sono sempre ripetuto Cos’hanno gli altri in più di te?. Poi a un certo punto ho capito che la risposta era niente. Ho lavorato tanto psicologicamente. Prima, quando arrivavano i momenti importanti, le gambe non giravano bene. Adesso rispondono bene al momento giusto».
Domanda di rito: per chi è questo successo?
«Per tutta l’Italia che mi ha sostenuto, per la mia famiglia, per i miei figli».
Lei la dedica all’Italia, ma qui gli americani ci tartassavano di domande sulla sua nascita in Texas
«E voi ditegli che sono italianissimo. Io a El Paso ci sono nato e basta. Sono arrivato in Italia che avevo dieci mesi. E’ la mia nazione e sono contento di aver portato in alto questa bandiera».
A cura di Gianluca Cordella (Il Mattino)

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