Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Ho visto un re, e poi il Re dei re”

“Andiamo a vedere il Santos, e Pelè”. Sollevai lo sguardo e restai lì, immobile. Il cuore scalò un battito, la salivazione si azzerò completamente, e nella mente si disegnarono immagini che mi raccontavano l’impossibile. Pelè. Me lo ricordavo sospeso in aria, dove probabilmente ancora stava, da quella notte di giugno di un paio di anni quasi prima, con l’ inquadratura del televisore troppo piccola per contenerne l’ immanenza mentre si apprestava a colpire di testa la palla che avrebbe battuto Albertosi. Una pietra scagliata con la fronte. Pelè. Quel suo passaggio a Carlos Alberto, quello della staffa, nel corridoio nel quale il suo compagno arrivava sul binario del quattro a uno finale di un Brasile-Italia indimenticabile. La palla messa lì, con un tocco leggero, senza nemmeno guardare, solo “sentendone” la presenza. Un passaggio incredibile. Quel mondiale, il mio primo, lo aveva dominato lui. Ed erano fioccate le leggende. Quelle di un altro mondiale, nel ’58, e di altri calciatori che vivevano solo nella fantasia. Vavà, Didì. Garrincha. Solo fantasia. Perchè Pelè giocava in una squadra fiabesca, chiamata Santos, che si esibiva in un luogo chiamato Brasile. Oltre gli Oceani. Un luogo raccontato solo attraverso ritagli di giornale e sfocate immagini in bianco e nero che lasciavano a bocca aperta. Il Brasile, che per me, come per tanti, significava il paese del calcio. E quando mio padre mi disse, quel mattino di marzo, mentre si annodava la cravatta, “andiamo a vedere Pelè”, si spalancarono le porte della mia fantasia. Ho visto Pelè, dunque, quella sera di marzo del ’72. Sulle scale di un San Paolo inghiottito dalla notte, alla luce di riflettori cui venne in soccorso una bella luna compiacente, con un cielo limpido dopo una pioggia da diluvio universale. Segno che anche il cielo si era fermato per guardare la dea Eupalla sotto spoglie umane. Quella notte tutti non avevano occhi che per la perla nera. Anche i giocatori del Napoli, forse spaventati dalla presenza della leggenda. Sormani ed Altafini e Zoff, tutti lì soggiogati dalla presenza maestosa di quell’uomo piccolo, dal baricentro basso, e le movenze di una lince. Pelè tocchettò la sfera. Un tunnel. Un passaggio morbido. Un palleggio. Una corsetta, con quel suo modo di stare in campo che era attesa. Attesa che qualsiasi cosa accadesse, perché lui e solo lui sapeva come e quando farla accadere. Confondendosi nella notte, con quel candore bianco che era la sua maglia quando catturava il baluginio della luna, aveva cinquantamila occhi addosso. Fuorigrotta non era vestita a festa, appena, venticinquemila persone. Ed uno scricciolo. Io. Pelè imperversò come quella pioggia di poco prima, in quel primo tempo nel quale tutta la sua classe salì al cospetto dei miei occhi. Permettendomi di rivederlo ancora con la maglia verde oro in quella notte dell’Atzeca. Un gol, subito, e le braccia sollevate al cielo, come nei ritagli di quei giornali. Un palo con un tocco morbido a scavalcare Zoff, le mani sul viso, con la palla che tocca il legno e torna in campo, lenta, soggiogante. E poi un’altra marcatura su rigore. Zoff da una parte, la palla dall’altra, come ti aspetti da un fuoriclasse. Dall’unico fuoriclasse. Quello che si siede sul tetto del pianeta. Nene’ fece il terzo, tra gli applausi del pubblico. Poi l’amichevole si trasformò in partita vera. Quando Altafini, cui non difettava l’ orgoglio, nella ripresa ne mise due. Sfiorando il terzo. Pelè si mise comodo a guardare la partita. Sebbene i miei occhi avidi chiedessero ancora una giocata, un’acrobazia, una magia. Uscii dallo stadio in preda all’emozione. Avevo visto Pelè. Il più grande. L’unico. Ancora non sapevo. Avrei dovuto attendere dodici anni, prima di sapere. Per vedere che esisteva qualcuno capace di superare il ricordo di quella sera. Spazzandolo via, relegandolo nel regno delle ombre. Non appena la partita terminò, tornò la pioggia. Fitta, battente. Coprendo ogni cosa. Chiudendola nella preziosa fantasia di un bambino che vide Pelè. Il Re del calcio. E che poi vide il Signore di quel Re. Il Re dei Re. Il solo, per davvero. Che palleggiò con la sfera dell’universo. Sinistro, destro, sinistro. Tenendola su una spalla. E poi sulla testa. Come una corona.

Stefano Iaconis

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