L’editoriale di R. Beccantini sul CorrSport:
“Ma allora c’è speranza per noi orfani dei “dieci” di una volta, gli anarchici alla Luciano Bianciardi che i tifosi considerano la soluzione e gli allenatori il problema? Lorenzo Insigne riassume e incarna una delle ultime fiaccolate, una delle alternative estreme al cilicio del pressing.
Li abbiamo deportati, i “dieci” che il loggione aveva elevato a simbolo del talento, dell’improvvisazione. Li abbiamo spinti verso la periferia, dalla quale evadono in maschera, attratti dal disordine che spaventa l’ordine del calcio post-moderno, la nuvola d’imprevisto che scardina le difese, e pure gli schemi, creando non lievi mal di pancia ai governatori delle lavagne.
A 30 anni, Insigne viene discusso addirittura a Napoli, la sua culla, il suo pulpito. Piccolo e tosto, da Maurizio Sarri a Roberto Mancini abita a sinistra per poi migrare al centro, in ufficio: il gol al Belgio – con quel destro a giro che Alessandro Del Piero liberò a Dortmund, in una notte di Champions – è il distintivo di un repertorio che il progresso ha zavorrato di mansioni quasi vessatorie rispetto alle scintille dei sogni.
Anche Eden Hazard, che a Monaco era infortunato, “comincia” dalla corsia mancina, in coppia con Thorgan, il fratello. Come Zinedine Zidane al Real. L’avevano sistemato lì: facesse un po’ lui. E lui faceva, faceva. La Spagna di Wembley non ne ha, di fantasisti: è un chirurgo che, nell’operare il paziente addormentato, ogni tanto addormenta sé stesso, con il rischio che il bisturi scompaia in una selva di palleggi.
Lo aveva la Svezia, un allegro collezionista di episodi: tale Emil Forsberg, quattro reti, il gusto del superfluo mai barattato con le esigenze degli equilibri; la giocata che diventa gioco o aiuta a diventarlo, senza tradire le radici. Mi ha rammentato il dribbling “sciolto” di Alessandro Diamanti, riccioli e alluci da hooligan della “scuola” dell’obbligo, un sorriso alle zingarate e un ghigno ai precetti. Gareth Southgate tiene il suo, Jack Grealish, in panca. La Francia, ecco, non ne ha uno che si possa definire “classico”, nel solco di un gergo adeguato ai tempi e alle carinerie, da trequartista a mezza punta e da punta larga a sotto punta. Non lo è Antoine Griezmann, per quanto talvolta lo sembri, non lo è Paul Pogba, incline a una recita molto fisica del “personaggio”, e non lo è nemmeno Kylian Mbappé, più vicino – nell’idea di ruolo e nello sviluppo di atleta – alla saga dei Ronaldi, il Fenomeno e Cristiano.
“Dieci”, ai suoi livelli, era Mancini. Per questo, è entrato nella testa di Insigne senza piallarla. Roberto era più direttore, Lorenzo è più inviato. Al primo piaceva “descrivere” già all’epoca in cui spopolava. Al secondo piace “scrivere”. La posizione, per i cacciatori di emozioni, non sarà mai una bocciatura o, peggio ancora, una prigione. Sarà, al massimo, una seccatura. I maestri e gli analisti possono condurre fino a un certo punto. Il passo cruciale spetta al discepolo, in barba al domicilio. Uscire dalle catene della cronaca per sfidare le burrasche della storia: il “dieci” è Emilio Salgari, non Edmondo De Amicis”.