La faccia imbronciata, lo sguardo perso nel vuoto. Dentro la giacca a vento dell’Italia, sprofondato sulla panchina azzurra di San Siro, Lorenzo sembrava diventato ancora più piccolo. Rosso di rabbia, quasi furioso De Rossi con l’ex ct Ventura che stava provando a metterlo in campo: «Ci vuole Insigne, deve entrare lui, io che c’entro?». Ragionava da allenatore, mantenendo intatto il senso del gruppo. La Svezia ci teneva inchiodati sullo 0-0 e vicini allo spettro del fallimento. Certe partite non le sblocchi neppure se giochi per tre giorni. Sarebbe servito un dribbling, un lampo o l’invenzione di un numero 10, per portarci al Mondiale. Invece niente, Ventura non fece entrare Insigne. Rimase fuori anche il romanista, oggi inserito nello staff di Mancini. Finì con gli azzurri annegati nella delusione, travolti dai fischi dello stadio intitolato a Meazza. Si disse, sbagliando, che Insigne (anni 26) non possedeva statura e spessore internazionale. Tutto si era complicato al Santiago Bernabeu, tre mesi prima, cedendo di schianto nel confronto diretto con la Spagna e perdendo il primato nel girone. Lorenzo sacrificato da terzino sinistro per sostenere un improbabile assetto (4-2-4): ci eravamo consegnati alle Furie Rosse.
PERNO
Sono passati quattro anni. Insigne era rimasto a guardare anche in Francia l’estate precedente per l’ultimo incrocio tra Italia e Belgio (2-0, gol di Giaccherini e Pellé, Europeo 2016). Novanta minuti filati in panchina, Lorenzo era stato convocato, ma non giocava. Il copione tattico di Conte non prevedeva un 10. Funziona così nel calcio soffocato dalla tattica, il percorso di un fantasista può essere più lungo e contrastato. Serviva un artista come Mancini per consegnargli le chiavi della Nazionale. Il ct, a pensarci bene, sta dando ai suoi ragazzi quello che gli era mancato in gioventù con la maglia azzurra. Un allenatore che sapesse parlare dritto al cuore e tirare fuori il talento, trovando le coordinate giuste per combinare il mosaico ideale. La vita toglie e può restituire a tempo debito. L’occasione, prima o poi, arriva. Lorenzo ha saputo aspettare.
SVOLTA
Questa sera all’Allianz Arena, si può dire, è la partita della vita per il capitano del Napoli o almeno la più importante della carriera. «Sarà quel che sarà» lo sussurra De Laurentiis, facendo pesare il rinnovo del contratto in scadenza. Mancini, invece, lo ha preso da parte e ci ha parlato a lungo nei giorni scorsi. Lo ha messo sul trono. Lo considera l’intoccabile del tridente. Resta aperto l’eterno dibattito su Immobile, Chiesa e Berardi sono in aperta concorrenza, Insigne non si discute. Il ct gli ha trasmesso serenità, gli chiede movimenti e colpi decisivi nella zona in cui l’Italia crea più gioco attraverso le combinazioni con Verratti e Spinazzola, un turbo sulla fascia sinistra. Insigne si accentra e può scegliere per il cambio gioco o per il tiro a giro sul palo più lontano, la specialità preferita. «Mi servono anche altre soluzioni» ha raccontato a Coverciano, ammettendo di cercare nuove soluzioni. Un gol così, lanciato da Immobile, gli è riuscito per il 3-0 con la Svizzera.
ASSIST
Ora proverà a restituire l’invito al suo grande amico Ciro, gemello diverso dai tempi del Pescara di Zeman. Davanti a De Bruyne e Lukaku, per tutti e due può essere la notte della consacrazione. Lo scherzo va fatto al Belgio. Lorenzo di strada ne ha fatta con il Napoli e il suo ruolino in Champions lo dimostra: 11 gol in 30 partite segnando al PSG, al Manchester City, anche al Santiago Bernabeu con il Real Madrid (finì 3-1 per i Blancos). Lampi di genio. Perle strozzate, fermandosi ogni volta a un passo dalla gloria. Stasera cercherà di illuminare l’astronave dell’Allianz Arena per tornare a Wembley e mettersi nella scia dei grandi numeri 10 che lo hanno preceduto.
A cura di Fabrizio Patania (CdS)