La storia del gladiatore tatuato sul braccio dovrebbe essere spiegata meglio, secondo noi, per non omologarla ad altri colleghi. Perché uno che non lo ha mai visto giocare, e darci dentro alla grande, magari vede Giovanni Di Lorenzo, seduto, col ricciolo e il baffetto da sparviero, col suo modo educato, le parole ben esposte, i richiami all’azzurrità (Empoli, Napoli, Nazionale e perfino la primogenita battezzata con quel nome del destino), poi lo sente descriversi come uno tosto, e magari non coglie il nesso tra l’uomo-calciatore e il simbolo impresso sul deltoide.
La verità è che per capire certi nostri ragazzi della piccola grande provincia italiana, divenuti adulti anche controvento, bisognerebbe andare dalle loro parti, per coglierne l’essenza. Lui di Ghivizzano, per dire, media valle del Serchio, alle spalle sterpigne della nobile Lucca, a un tiro di doppietta da Corsagna, dove un indemoniato ds dei locali dilettanti, reso immortale via web qualche anno fa, spronava un suo protetto, tra un rosario di bestemmie, urlandogli, in dialetto:
«Tu con me, vai come un treno….Ti devono picchià, ti devi rialzà e ’gni devi dì che te la dà più forte tu madre… ’nteso?».
Ecco come vengono tirati su certi nostri gladiatori.
Del resto Di Lorenzo è cresciuto sotto la Torre di Castruccio Castracani, condottiero coevo di Dante, divenuto celebre giusto nell’Inghilterra di Edoardo I: in questi giorni il celebre monumento del paese di notte è illuminato d’azzurro, con in mezzo proiettato il numero 2 del difensore del Napoli e della Nazionale, nato peraltro attaccante. Il sindaco Remaschi è il primo a sedersi davanti al maxischermo sistemato per l’occasione. E più illuminato di DiLo, ieri, a Coverciano, ce n’erano pochi. Domani quasi certamente toccherà a lui sostituire Florenzi, ancora in via di recupero, facendo pendant con Spinazzola, fin qui la coppia più veloce di tutto l’Europeo.
Giovanni sorrideva: «Lo dicono i numeri, dunque… Spina poi è un lampo. Però non credevo di andare tanto veloce. Anche se sul piano fisico so di essere forte, è una delle mie armi».
In paese lo adorano, lui contraccambia, lì c’è ancora la sua famiglia, soprattutto il fratello, Diego, maggiore di lui di quattro anni, l’altra parte di sé, sempre al telefono nei momenti che contano:
«Lui c’era soprattutto cinque anni fa, quando rimasi senza squadra. Poi è cambiato tutto, sono stato bravo a non mollare. Ho trovato società che mi hanno fatto crescere, come l’Empoli, eppoi maturare, come il Napoli. Se sono qui lo devo al mio club. E alla città, che ha accolto me e la mia famiglia con grande affetto. Sognavo di arrivare qui, davvero. Però non è un punto di arrivo, ma di partenza. E ora me la godo, insieme ai compagni. Senza ansia, perché sappiamo il nostro valore, con entusiasmo, che non deve sfociare nella presunzione. E lottando».
Usque ad finem, ’nteso!
A cura di Andrea Santoni (CdS)