La vita (ri)comincia a quarantadue anni: e in questo viaggio affascinante e anche misterioso, con gli occhi che divorano un orizzonte nuovo, Roberto De Zerbi porta con sé quel desiderio un po’ vorace di scoprire altro di sé. In sette anni, in quella meravigliosa parabola che l’ha portato dalla serie C con il Foggia a questa avventura che – dopo il triennio con il Sassuolo – comincia oggi con lo Shakhtar, il calcio di De Zerbi è stato riempito di affreschi, di riflessi abbaglianti, d’una felicità ora da esportare. De Zerbi è un languido e incontentabile sognatore, ha l’esigenza di misurare se stesso mettendosi in discussione, inseguendo persino l’utopia o gesti bianchi che sappiano di lui, d’uno stile che non conosca frontiere, che vadano oltre.
De Zerbi, perché? «Perché volevo rimettermi in gioco. Perché voglio crescere. Perché al Sassuolo ero arrivato – secondo me – al punto più alto del progetto. Perché intendo imparare a gestire tre partite settimanali con organici ricchi di stranieri e misurarmi con una lingua nuova. Perché voglio diventare padrone dell’inglese».
E perché proprio lo Shakhtar? «Perché sono stati quelli che mi sono apparsi più vicini al mio modo di pensare il calcio. E perché nessuno più di loro mi ha dato la sensazione di potermi completare ulteriormente».
Per cominciare, ha pensato di inserirsi in quel mondo facendoselo raccontare da chi lo conosceva. «Ho chiamato Paulo Fonseca, del quale ho grossissima stima e con il quale c’è un fantastico rapporto, e mi sono lasciato guidare in una realtà per me ignota. Nessuno più di chi ha avuto modo di allenare lo Shakhtar avrebbe potuto offrirmi una panoramica a 360° gradi su ciò che mi attende».
Ha detto recentemente Mihajlovic, parlando di lei e di Italiano: ma cosa dovevano fare ancora, entrambi, per meritare qui da noi un’occasione importante? «Belle parole, per le quali ringrazio Sinisa. In Italia qualcosa si è mosso, ho avuto contatti ma poi ho scelto di andare in Ucraina. Lo Shakhtar mi è sembrata la collocazione più aderente alla mia identità e il club che rappresenta la mia filosofia. C’è una società che ha una sua storia e vuole impreziosirla ulteriormente. Io esco da quella che era diventata la mia comfort zone del Sassuolo, dove ero amato da chiunque. Ma oramai avevo bisogno di ricominciare daccapo, praticamente da zero. E però non si dica, come ha scritto qualcuno, che l’ho fatto per soldi. Sciocchezze!. Restando qua, avrei guadagnato le stesse cifre».
Si può però dire che sin da Foggia, 2014, il De Zerbi allenatore è apparso come un predestinato?
«Boh! Io so che ho fatto la gavetta, portandomi appresso la passione che avevo da giocatore. Ho vissuto il calcio quasi sempre a modo mio, anche se un po’ sono cambiato. Sono rimasto ambizioso ma non sono mai stato un arrivista. E se questa svolta si è realizzata ad appena 42 anni, non posso che ritenermi soddisfatto. Ma la strada è lunga».
Da Foggia a Benevento e poi a Sassuolo: ma chi è il De Zerbi che il 14 giugno inizia la sua avventura con lo Shakhtar? «Sostanzialmente sono lo stesso di quando ha cominciato ad allenare: un tecnico che insegue il bel gioco e che pensa sia prioritario il divertimento, al quale si arriva tenendo il pallone più di quanto lo faccia l’avversario. Se in me ci sono tracce di diversità, forse vanno riscontrate nel carattere: a Foggia ero ancora come mamma mi aveva fatto. Poi sono dovuto diventare più riflessivo, ma rimanendo però diretto».
Il suo passato è uno scrigno di sentimenti. «Ho giocato ovunque ma chi ha avuto modo di farlo con il Napoli e con il Cluj può essere pronto a qualsiasi esperienza. Io lì, tanto al Napoli quanto al Cluj, ho avvertito un mutamento umano e professionale che mi ha segnato, migliorandomi. E mi è andata benissimo anche da allenatore, perché non dimentico ciò che ho ricevuto da Oreste Vigorito e da Giovanni Carnevali: quello che sono lo devo innanzitutto a loro. A Benevento retrocedemmo ma lo facemmo tra gli applausi della gente, cinque minuti indimenticabili. E con il Sassuolo siamo stati capaci di cogliere risultati straordinari, in un contesto che si può definire esemplare».
In serie A tornano Allegri, Mourinho, Sarri e Spalletti proprio mentre lei va via… «E devo dire che mi spiace privarmi di un così elevato confronto con colleghi dei quali ho il massimo rispetto e una stima assoluta. Stiamo parlando di quattro allenatori da inserire nella categoria dei top, alla quale appartengono pure Gasperini e Pioli. Con loro diventa più vivo un campionato nel quale, poi, ci sono in panchina altre figure emergenti. La serie A si impreziosisce delle loro culture, di personalità così forti con le quali incrociandosi ci si arricchisce».
Ma per De Zerbi il più bravo chi è? «La gente dice che lo sia colui che vince. Io non so se ciò sia vero, però penso che Guardiola rappresenti il non plus ultra. Ha perso la finale di Champions League e si è ritrovato criticato per aver rinunciato al centravanti, per aver scelto di avere un mediano in meno, per avere osato proprio come aveva fatto per un intero campionato, stravinto utilizzando le identiche teorie risultate insufficienti soltanto in quei 90 minuti. Quelle strategie, che per mesi erano state sostenute da cori d’ammirazione, all’improvviso, per una sconfitta, sono diventate argomentazioni per attaccarlo. E, onestamente, a me qualcosa non torna».
Ma è possibile stabilire quanto incida un allenatore su un gruppo? «Una grande squadra non è tale se non viene guidata da un grande allenatore. Ma un allenatore non ha percezione della sua statura senza il sostegno di grandi giocatori. E mettere assieme tanti grandi giocatori senza che a dirigerli sia un grande allenatore può essere un rischio».
De Zerbi come racconterebbe De Zerbi? «Premesso che parlarmi addosso non mi piace, né mi pare il caso, ma tenendomi largo da posso semplicemente ammettere d’essere contento dei miei progressi, di quel che ho potuto realizzare con il contributo di chi ha creduto in me e di essere ora allo Shakhtar. Spero di migliorare, di dimostrare d’essere autorizzato pure a frequentare questa nuova dimensione, di dare al mio nuovo club ciò che si aspetta. E mi auguro di ricevere altrettanto, per poter scoprire eventualmente nuovi mondi, nei quali muovermi con un inglese sempre più disinvolto. Non mi pongo limiti, men che meno quello di tornare un giorno in Italia, ma voglio saperne sempre di più, voglio studiare, ho sete di conoscenze, l’evoluzione non può fermarsi».
Prima di partire, s’è goduto Berardi, Locatelli e Raspadori in Nazionale. «Io non ho meriti, sono probabilmente soltanto la punta dell’iceberg. Durante il campionato, ogni volta che c’era una sosta, andavano via in 13 o in 14. Ma venerdì sera, nella Turchia, c’erano pure Ayan, Müldür e Demiral, pure loro recentemente legati al Sassuolo, come per esempio Acerbi. È l’ambiente che ha favorito questa fioritura…. Però è stata una gran soddisfazione vedere Locatelli e Berardi così integrati e funzionali nel gioco di Mancini».
E l’Italia le è piaciuta. «È una squadra che diverte, che ha una sua identità, che ha coraggio, che rende orgogliosi di essere italiani e ha fatto tornare alla gente la voglia di tifare per la Nazionale».
Ma queste sono le ore in cui il pensiero va sempre a Christian Eriksen. «Le immagini in tv sono state fortissime e mi hanno scosso. Auguro a Eriksen di tornare a una vita normale e poi a quella di calciatore, perché un talento come lui merita di esprimersi sul campo. Ma nella memoria è rimasta cristallizzata la fotografia dei suoi compagni, quel cordone umano che prima lo protegge e poi lo accompagna fuori dal campo. Nella drammaticità, un momento unico, commovente».
A cura di Antonio Giordano (CdS)