“Dios es fiel”. È la scritta che Gennaro Tutino porta tatuata sul petto: Dio è fedele. Dio e la famiglia nel cuore, il pallone in testa. Cresciuto a Lago Patria, trasferitosi a dieci anni sulla Collina dei Camaldoli, a Napoli, Gennarinho, come molti lo chiamano, ha sempre avuto un chiodo fisso: il pallone. Il Fenomeno, CR7 e Ronaldihno i suoi idoli, Maradona il mito. Nelle partitelle per strada gli amici se lo contendevano perché la squadra con Gennaro Tutino vinceva sempre. A quasi 25 anni l’attaccante napoletano ha già alle spalle una carriera intensa, che oggi, dopo la promozione in A con la Salernitana, è ad una svolta. Tutino vuole la serie A, anche se non sa ancora se sarà in granata o altrove. Intanto, si appresta a partire per Ibiza con la compagna Arianna e la piccola Benedetta di due anni e mezzo. E dopo la vacanza si parlerà di futuro.
Tutino, cos’è il calcio per lei? «È la cosa più importante. È la passione della mia vita, penso di essere nato per questo sport».
Torniamo indietro nel tempo, a Lago Patria. «Giocavo per strada con mio cugino Armando Anastasio (50 presenze nel Monza, n.d.r.). Giocavamo sempre. Mi piaceva fare gol, dribbling, colpi di tacco. Sono sempre stato così. Se perdevo, mi arrabbiavo. E mi preparavo come se avessi dovuto giocare la finale di Champions League».
Da piccoli si sogna sempre di diventare un campione. Lei? «Il mio sogno era quello di arrivare in A, di giocare negli stadi più importanti d’Italia».
È quello che accadrà da agosto in poi. «È quello che voglio: giocare in A. Me la sono guadagnata, ho vinto un campionato, ho fatto la gavetta. Mi sento pronto».
Andiamo subito alla domanda cruciale: resterà a Salerno? «Fin qui non ho ancora parlato col direttore Fabiani e col Napoli, non conosco le intenzioni della società granata. Non dipenderà da me: se la Salernitana entro il 30 giugno eserciterà il riscatto, io ho già il contratto firmato ed è già tutto depositato. So bene che questo è un momento difficile e che cinque milioni sono tanti. Ma so pure di aver dato un contributo importante a questa promozione. Io vorrei restare e sarebbe bellissimo se la Salernitana mi riscattasse perché vorrebbe dire che punta su di me».
I tre momenti cruciali di questa stagione? «Innanzitutto le tre sconfitte consecutive con Monza, Pordenone ed Empoli. Dopo quel passaggio a vuoto ci siamo parlati nello spogliatoio, abbiamo messo le cose a posto e siamo ripartiti. Poi la vittoria col Venezia all’Arechi nel finale. Ed infine quella a Lignano contro il Pordenone».
Con il rigore di Tutino al 95’. Lei ha poi scritto: 11 metri e Salerno sulle mie spalle. Cosa pensava in quei secondi? «Ero concentrato sul pallone. Sapevo che se avessi segnato, quello sarebbe stato il gol della serie A. Per me è stato un attimo, non per quelli che erano a casa. Poi ho visto gente piangere e svenire. Solo allora ho riflettuto su quel tiro. Avevamo fallito, Djuric, io e Di Tacchio, i tre rigori precedenti, ma non ci ho pensato, altrimenti avrei sbagliato anche quello».
Cosa le ha insegnato Castori? «È stato molto importante per me e per tutti noi. È riuscito a plasmare un gruppo straordinario, che lo ha seguito in tutto».
Qualche volta è finito anche in panchina. «Due o tre volte. Devo ringraziare il mister perché penso di essere migliorato sul piano mentale e sotto l’aspetto tattico. Comunque vada, gli sarò sempre riconoscente».
Come sarà riconoscente al Napoli, dov’è cresciuto. «Cominciai alla Juve Domizia con Sandro Nedi e Gennaro Di Razza. A 12 anni, durante un provino, mi vide Santoro e mi portò al Napoli. Il Napoli è la mia squadra del cuore, c’è un’identità tra il club azzurro e la città. Sono rimasto sei anni nel Napoli. Ricordo, tra gli allenatori, Gennaro Sorano, Nicola Liguori, Dodo Sormani e Giampaolo Saurini».
Eppure, fin qui la sua carriera si è sviluppata altrove. «Forse fino ad ora non sono stato mai pronto per giocare nel Napoli, sono scelte che ha fatto la società e che io ho sempre rispettato. Il Napoli è una grande squadra, lotta per lo scudetto, partecipa alla Champions League: devi essere davvero forte per giocarci. Ma io spero sempre che un giorno possa accadere».
Papà Alfredo, mamma Loredana e suo fratello Giuseppe, come hanno preso questa promozione in A? «Mio padre mi ha detto: bravo Gennaro, ci sei riuscito. Ora vai in vacanza e poi riparti. Mia mamma sta ancora piangendo. Anche a me, a Pescara, è scappata qualche lacrima. Questo è il momento più alto della mia carriera: raggiungere la A in una piazza importante e passionale come Salerno è fantastico. Sono felice per essere riuscito a regalare tante emozioni ai tifosi, a persone che non consocerò mai. Non ci sono cuori di serie A e cuori di serie B. Ci sono cuori e basta».
E la piccola Benedetta? «Mia figlia è la mia vita, da quando è nata sono cambiato. Ciò che conta sono l’educazione e i valori. Devo ringraziare la mia compagna, Arianna, che è una donna straordinaria».
Come l’ha conosciuta? «Ad una festa al Vomero. Avevamo 15 anni. Lei non parla mai di calcio, è la mia forza».
E quel tatuaggio sul petto? «Dio non ci tradisce mai. Io sono devoto alla Madonna di Lourdes, perché mia mamma fece un voto quando da piccolo stavo poco bene, ed a Santa Rita, perché mia nonna Rita, scomparsa a dicembre, mi regalava sempre i petali di rosa. Sono legatissimo a nonna Emilia, che è la mia più grande tifosa».
Oggi qual è il suo sogno? «Diventare un giocatore importante in serie A. Devo migliorare tecnicamente, tatticamente ed un po’ anche fuori dal campo. So che dovrò lavorare tanto, ma posso farcela».
Intervista a cura di Franco Esposito (Cds)