L’editoriale di Roberto Beccantini (CdS)
“Di Rino Gattuso conservo un ricordo nitido. Un’intervista di fine dicembre 2006, a corredo del nostro Mondiale. La preda avrebbe dovuto essere Fabio Grosso, copertina di quella Nazionale improvvisamente nazione: il rigore sfilato all’Australia, a Kaiserslautern; il primo gol alla Germania nel fortino di Dortmund, che sta ai tedeschi come il Filadelfia stava al mito di Valentino; l’ultimo e cruciale penalty a Fabien Barthez, la notte della testata di Zinedine Zidane e di un Paese fuori di testa. Non lo trovai. Ripiegai su Ringhio. La sua gentilezza, asciutta, affiorava dalla scorza dell’uomo che si è fatto sudando e non, viceversa, vedendo sudare. Parlammo per mezz’ora. Mi diede il titolo: «Ho imparato più da Istanbul che da Berlino». Istanbul 2005, «bella» di Champions, Milan-Liverpool da 3-0 a 3-3, poi i rigori, poi Jerzy Dudek «santo durante», che, dei beati, resta la categoria più infìda. Portieri normali, quasi banali, ma nei momenti del martirio così fenomeni da parare persino il destino.
Gattuso, dunque: ha 43 anni ed è a un pelo dalla Champions. Napoli ha sempre privilegiato i solisti ai direttori d’orchestra fin dall’epoca di Attila Sallustro, Hasse Jeppson «’o banco ‘e Napule», Luis Vinicio, Omar Sivori. A parte, e a furor di popolo, Diego Armando Maradona: il nome dello stadio. I napoletani non si innamorano degli allenatori: all’ordine preferiscono il disordine. Rare le eccezioni: Maurizio Sarri, per esempio. Il comandante che trasformò lo spartito in un tenore, e allora tutti giù per terra. Fino al Chelsea: e allora tutti sul sentiero di guerra.
La scintilla non scattò con Carlo Ancelotti, abituato a realtà troppo grandi – Chelsea, Paris Sg, Real, Bayern – per gestire le pulsioni di una piazza storicamente «anti». Lo sostituì proprio Ringhio. Arrivò settimo, a 21 punti dalla Juventus di «C’era Guevara». E comunque: una Coppa Italia contro «zero tituli». Gattuso viene dalla melma del centrocampo, corso e rincorso come se fosse una reggia. Conosce il peso della sofferenza (la scomparsa della sorella Francesca, i problemi all’occhio destro). Non è perfetto: la staffetta fra David Ospina e Alex Meret non è piaciuta neppure al sottoscritto. Le beghe societarie, gli infortuni e il Covid «nigeriano» di Victor Osimhen lo hanno confuso: senza il totem attorno al quale ballare il 4-2-3-1 della svolta, si smarrì in un labirinto di passaggetti rugbistici, tipo Juventus di Andrea Pirlo, salvo uscirne in bellezza.