Gianni Minà presenta: «Maradona: “Non sarò mai un uomo comune”». Il rapporto del Pibe con Napoli

Esce oggi il nuovo libro di Gianni Minà dal titolo «Maradona: “Non sarò mai un uomo comune”», edito da minimum fax (pp. 230, 16 euro). Pubblichiamo un brano di una intervista concessa da Maradona nel 2005 sul suo rapporto con Napoli. 

Davanti alla serenità e alla gioia con cui mi racconta delle figlie, mi sento autorizzato a cercare di ripercorrere con lui un’avventura di vent’anni nella quale ci siamo trovati spesso a parlare, cominciando dal suo trasferimento a Napoli.

In un’occasione, Diego mi aveva detto che il suo malessere se lo portava già dentro, e che tutto era cominciato a Barcellona. «In realtà avevo già cominciato al Boca Juniors, tanto tempo fa: avevo ventidue anni. Insomma, di tempo ne ho perso tanto, ma la dipendenza è una malattia. Se non avessi preso quello che prendevo, oggi sarei qui a parlare di qualcosa di diverso. Finché era un divertimento stavo bene, in fondo, perché non facevo male a nessuno. Quando è passato il divertimento e ha cominciato a essere una dipendenza… a quel punto ho iniziato a far soffrire la gente alla quale volevo molto bene».

Gli chiedo se dietro la sua dipendenza non ci sia stato anche il fatto che a Barcellona si sentiva escluso o trattato da sudaca (un dispregiativo che in Spagna viene riservato ai sudamericani). Se Napoli lo abbia aiutato o non abbia solo accentuato il disagio che si portava dietro dai tempi della militanza nel Boca. Ma Diego è inflessibile, prima di tutto con se stesso.
«Se c’è un colpevole di quello che mi è successo, quel colpevole sono io. E le situazioni me le sono risolte da solo a quindici anni, a trenta, a quarantaquattro. Continuo a decidere il bene o il male della mia vita. Da Napoli, per essere chiari, ho ricevuto solo ringraziamenti e in alcuni casi manifestazioni d’affetto. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto io. Napoli non mi ha spinto a niente».
Gli ricordo un episodio del 1986. Alla vigilia di quel meraviglioso mondiale nel quale quasi da solo avrebbe trascinato l’Argentina alla vittoria finale. Avevamo realizzato insieme un documentario lungo un’ora, dove, senza dirmelo esplicitamente, Diego mi aveva messo sull’avviso con una sincerità quasi autolesionistica. Mi aveva fatto capire che stava succedendo qualcosa nella sua vita, che a Napoli non sempre era in grado di scegliere, o di dribblare certe situazioni. E lui mi risponde, con la solita chiarezza e senza mezze misure. «Napoli è stata una gabbia per me, una gabbia che a volte era buona. C’erano tanti divertimenti, però noi eravamo lì come giocatori, per far felice la gente. Io ho un solo grande rammarico, ed è legato al giorno in cui qualche anno dopo me ne sono andato, o meglio, al giorno in cui il presidente Ferlaino mi ha cacciato via. Le bambine e Claudia piangevano. Io no, perché volevo mostrarmi forte, ma avevo una voglia di piangere grandissima».

«Nessuno si è domandato perché tutto quello che è successo… è successo. Semplicemente qualcuno ha detto: “Per noi Maradona è morto perché è stato trovato positivo al doping”. Io invece me ne sono andato e ora qualcuno insinua che mi sia dimenticato di Napoli, ma io non rimprovero i napoletani, per questo. Io voglio ritornare a Napoli, e voglio che Napoli sappia che io me ne sono andato, però solo dopo aver regalato qualcosa di consistente alla città! Mi capita ancora di parlare con amici come Salvatore Bagni, Bruno Giordano, Eraldo Pecci, e guardando a distanza quello che facevamo ogni giorno sul campo… be’, siamo stati grandi. Noi abbiamo lottato per cose diverse: per unire la città, per farla rispettare da tutta l’Italia».

Gianni Minà (Cds)

 

 

 

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