Al trentunesimo minuto della sua partita con il destino, e della sfida contro tutte le antiche dicerie catalogate come cattiverie o semplicemente ritenuti luoghi comuni, Lorenzo Insigne sistemò il pallone sul dischetto, resettò tutto ciò che gli era rimasto nella sua testa del minuto ottanta della precedente nottata da incubo, comunque troppo vicina per essere cancellata, puntò, mirò e infine tirò come (forse) non avrebbe mai fatto. In genere, ma mica sempre, avanzando dolcemente ma decisamente, gli era sempre piaciuto essere elegante: una finta, il portiere che s’adagia e lui che la sistema, possibilmente, dall’altro lato. Però a Reggio Emilia, maledizione, aveva sentito prima il tonfo del cartellone pubblicitario, sul quale il pallone era andato a sbattere, poi quello dell’anima, sballottata dalla delusione che gli avrebbe strappato altre lacrime. E quella sera, il 13 febbraio, in Napoli-Juventus, diventata inutile – magari dannoso – pretendere d’essere di bocca buona: mentre intorno s’avvertiva l’ansia collettiva, e quindi si percepiva pure quel filo di paura, il «monello» del gol decise di fare a modo suo, di stravolgere le proprie abitudini e le proprie regole, e di collo-interno, ma comunque avendo certezza che stavolta Szczesny fosse altrove, la piazzò all’incrocio dei pali e si liberò d’ogni forma di malinconia e pure dei rimpianti.
Fonte: A Giordano (Cds)