Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Tre minuti al novantesimo”

Il freddo punge gli occhi. Li fa lacrimare due volte. Per il gelo che si insinua feroce, e per il risultato, al minuto 42 di Napoli/Udinese. Mattei, la, piccola ala bianconera con il numero 7 stampato sulla schiena, ha appena infilato il povero Giuliani, laggiù, nell’angolino basso alla sua sinistra. Una rasoiata di interno destro, un tiro a giro senza scampo. Due a zero per i friulani, il Milan che sta strapazzando la Lazio, in quell’Olimpico dove, due domeniche prima, abbiamo perso la nostra prima partita del torneo. Anche l’Inter vince, e ci alita sul collo. E’ un gennaio terribile. E’ un gennaio che incappuccia le cime delle montagne, che si scorgono dallo stadio Friuli, di neve candida come panna. Nuvole pigre passeggiano nell’azzurro, venato di rosa. Quella stessa neve ammucchiata sui bordi del prato, la scenografia di un giorno perfetto per una sceneggiatura che sa di ritirata. Due a zero, De Vitis, di testa, su cross dello stesso Mattei, subito, dopo una manciata di secondi dal via, e poi questo gol. Mancano tre minuti al novantesimo, e noi guardiamo Diego, le mani nei fianchi, che scuote la testa dai riccioli neri. Alemao mima un gesto con la mano, verso Renica, Giuliani passeggia per la sua area di rigore, scruta il cielo, cerca un auspicio che non c’è nel passaggio delle nuvole che galleggiano. Siamo saliti ad Udine, io e papà, dopo un viaggio in auto di dieci ore. Attraversando l’Italia, alternandoci alla guida. Una domenica come tante altre, in questo 1990 di passione azzurra, la nostra “Polo” blu metallizzato che viaggia su e giù per la penisola, seguendo il Napoli, un destriero che scorre il nastro autostradale, con a bordo due cavalieri della tavola azzurra. Alla ricerca del Graal. Lo scudetto. Conteso al Milan di Sacchi, che due anni prima ce lo ha soffiato nel pomeriggio di un primo maggio maledetto. Al termine di una rincorsa che somiglia in maniera sibillina, alla stessa che i rossoneri hanno incominciato, dopo una partenza sorniona. Un viaggio folle fino ad Udine, tra tempeste di pioggia, sole a catinelle e neve, dappertutto, quando ci siamo avvicinati al tetto d’Italia. Non sento più i piedi, due blocchi di ghiaccio, le mani sono sepolte dentro le tasche del piumino pesantissimo, ho solo quegli occhi che lacrimano, per il freddo e la rabbia, visibili attraverso una sciarpa ed un cappello che mi coprono senza più scaldarmi. Il gelo del dispiacere penetra a fondo. Il silenzio fa da contorno nel nostro settore. Mentre il Friuli canta. Battere il Napoli di Diego, un’ impresa. Guardo papà, un cenno di intesa, uno sguardo alle montagne laggiù, mentre batto i piedi a terra forte, scrollando piccole volute di nevischio dagli scarponcini. E’ tempo di andare, la partita è finita. Percorriamo le scale, mentre dentro riverbera la eco delle grida dei tifosi bianconeri, che diventano boato rimbalzando tra le piccole gallerie affiancate. Accelero il passo, la macchina è lontana, mente le scarpe scivolano sul manto stradale ghiacciato. Papà è dietro, la fedele radiolina all’ orecchio, il passo più lento, cadenzato dalla voce di Ameri. Ho tanto freddo, voglio arrivare all’auto, accendere il riscaldamento, ripartire. Arriveremo al mattino, se, come sempre, non ci fermeremo mai. Stavolta credo dovremo riposare da qualche parte. Firenze, magari, un giro in centro domattina e… Sento l’ urlo di mio padre che mi chiama forte. Mi volto, e lo vedo immobile. Alle spalle l’acciaio dello stadio, il crepuscolo che lo sta incominciando ad avvolgere. Un gelido gigante che custodisce il ricordo di una giornata da dimenticare. “Rigore, rigore per noi”. Grida, agitando una mano. Mi dice vieni, vieni, quella mano. Il tempo si ferma un istante, un istante che sa di eterno. Io immobile, lui immobile, ogni cosa intorno immobile. “Diego”! Grida, “Due a uno”! Si volge, e corre via. Verso lo stadio. Corre veloce, nel freddo, ai piedi le ali di una speranza incredibile, i calzari del Mercurio alato messaggero di un miracolo. Allora corro anche io, dietro di lui. Solo che lui è incredibilmente veloce, e lo vedo sparire sulle scale. Si volta appena un momento, quella mano sempre ad indicare la strada, quella che solo la fantasia adesso vede. Salgo i gradini, il sudore che incomincia ad accaldarmi, srotolo la sciarpa, la tengo in una mano, piegata a metà, abbasso la cerniera del piumino, le scale a due a due. Un istante prima di arrivare all’ ingresso del settore sento uno strillo immane. Arriva dal ventre delle montagne, lo porta il sussurro del vento che si sta sollevando. Sale fortissimo, e diventa un ruggito. Quando arrivo su, scorgo il delirio. Maglie azzurre che corrono sul campo, un paio sotto il nostro settore. Alemao abbracciato a Diego, insieme vanno verso la panchina. Qualcuno mi abbraccia e mi urla nelle orecchie “Corradini, ha pareggiato Corradini!” E mi bacia. Un altro alle mie spalle mi sale in braccio. Cerco papà nel manicomio che è diventata la curva del Napoli, mentre il resto dello stadio è silenzioso come quelle montagne intorno. Lo vedo. E’ sotto un nugolo di tifosi, il viso verso me. Saltano, si abbracciano, le gote rosse, non per il solo gelo, adesso, le bocche spalancate in un urlo che pare muto e che si fonde con altre cinquemila urla. E’ felice, in estasi. Mi chiama ancora con la mano che emerge dal mucchio. “Vieni”, dice quella mano. Allora mi lancio. Urlando anche io.

Stefano Iaconis

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