Il calcio, la sua arte, il gol. Racconta questo Fabio Quagliarella nella sua intervista a La Gazzetta dello Sport. Non manca, certo, qualche ricordo, soprattutto uno, napoletano…
Il mio campetto, la gioia: «Tornavo a casa in estate. Con un caldo feroce, mi ripresentavo con il mio pallone su quel campetto in terra battuta vicino a casa dei miei genitori, dove tutto aveva avuto inizio: un amico in porta, mio fratello e altri ragazzi che mi facevano i cross. E io calciavo, anche per due ore. Il gol è la mia malattia… Ancora oggi, se potessi, starei due ore a provare solo i tiri da lontano. L’immagine di un portiere che al massimo dello sforzo non riesce a bloccare il tuo tiro è la gioia più grande».
I miei gol: «Ho sempre segnato certe reti. Da piccolo, in cortile, facevo le rovesciate sull’asfalto, o tiravo dalla lunga distanza. Mi sono sempre spinto oltre. Lì pensi che sia tutto normale. Poi arrivato in un settore giovanile ho messo tutto a fuoco».
Il gol si insegna: «Mi piacerebbe. Ai giovani direi: “Sbattetevene dell’errore. Provateci”. Anche se ho l’uno per cento di possibilità, ci provo sempre. Sto facendo il corso da allenatore, si parla anche di questo. A 9-10 anni i ragazzi devono divertirsi, esprimere l’estro. L’oratorio, la strada, si parte da lì. Quando torno oggi a casa dei miei, invece, il cortile è vuoto. Nessun bambino».