“Attacca adesso il Napoli, dal settore destro”. Nel silenzio domenicale del vicolo, la voce limpida, dal ritmo incessante, le parole scandite perfettamente, sale in piccole volute, si fa strada tra le distese di “panni” del bucato distesi ad asciugare nel gelido calore che i raggi di un sole che non riesce a farsi strada, creano rimbalzando sui muri dei palazzi altissimi e antichi. Lo conoscono tutti, Don Gennaro. Ogni domenica se ne sta lì, fuori alla piccola osteria dai tavoli di legno e le tovaglie candide un poco stropicciate. Arriva alle 14, si siede e Carmine, che alla trattoria “Carmeniello” sui quartieri, conduce la locanda assieme alla anziana madre che fa capolino ogni morte di papa dal suo regno, la cucina, dalla quale un odore di ragù e polpette scivola fuori allungandosi fin sulle rampe che conducono verso via Toledo, gli porta la mezza brocca di vino della casa. Rigorosamente bianco. Don Gennaro lo versa nel bicchiere dal vetro lavorato, che l’uso negli anni ha appena reso opaco, e si accende la prima sigaretta. Il vestito dalla giacca a piccoli quadretti rossi, il farfallino nero sulla camicia bianca immacolata, inappuntabile nel nodo, i pantaloni di gabardine, i baffi spioventi, grigi, con tracce di tabacco tra i fili arruffati. Nel vicolo, a quell’ ora di domenica, non c’è nessuno. Gioca il Napoli. Lui tira fuori dalla tasca interna la sua radiolina a transistor, solleva l’antenna e la mette lì, al centro del tavolo, accanto alla brocca. Carmine gli porta il pane, e lui ne sbocconcella un poco, lo sguardo perduto da qualche parte, l’aria assorta. La radio gli tiene compagnia. Quando arrivano i maccheroni, ogni volta gli stessi, “nguacchiati nguacchiati”, perché a lui piacciono così, don Gennaro sbandiera il tovagliolo bianco sui pantaloni e comincia a mangiare. Piano. E’ un rito. Li mangia lentamente, masticando con gusto, senza fretta, la radio sintonizzata sempre sulla stessa stazione, da sempre. Forse da cinquant’anni. Da quando prima di Carmine c’era suo padre, Saverio. E lui, don Gennaro, mangiava gli stessi maccheroni. E poi le stesse polpette. Aspettando il Napoli. Don Gennaro si dice non abbia nemmeno il televisore, nel suo appartamento due rampe più su, nel palazzo spagnolo dal grande portone in legno di quercia con i battenti ad anello. Senza ascensore, con le rampe di scale dai larghi lastroni in marmo che salgono fino al quarto piano, dove lui abita. Il Napoli lo ascolta solo alla radio. Da quella sua radio a transistor dall’antenna lunga che termina in un minuscolo pomello. Sivori, Canè, Clerici, Savoldi, Maradona, Cavani. Lui non li ha mai visti. Sono solo nomi custoditi tra le frequenze della sua radio. Dicono che abbia visto il Napoli giocare all’ Ascarelli. E poi al Collana. Ci andava con suo padre. Sempre. Portavano i maccheroni al sugo con le polpette, avvolti dentro carte oleate. Poi suo padre era morto, dicono quando il Napoli si era trasferito al San Paolo, a Fuorigrotta. E lui, Gennaro, allo stadio non ci era andato più. Si era trovato la compagnia di una radio. Continuando a mangiare i suoi maccheroni al sugo e le sue polpette. Come quando stava con suo padre ed al Vomero ci saliva con il tram. Quando finisce le polpetta, Carmine gli porta il caffè. Alle 15 in punto. Quando parte la sigla di tutto il calcio minuto per minuto. Da cinquant’anni. Qualcuno che si affaccia sul vicolo dice che se ne sta immobile, per tutto il tempo. E che se il Napoli segna, e lui sta ancora fumando, si accende un’altra sigaretta, contemporaneamente, e la mette nel posacenere, di fronte a sé, come se la offrisse a qualcuno. Quando piove Don Gennaro se ne sta dentro, nel tavolo vicino alla piccola finestra, con la fessura laterale aperta. In modo che la voce che viene dalla sua radiolina si dispieghi lungo il vicolo, arrampicandosi sulle ringhiere, tra i fili dove i “panni” stanno ad asciugare, scendendo lungo le scale che conducono su via Toledo. “Attacca il Napoli, adesso, dal settore destro”…
Stefano Iaconis