Il Canneto è un fiume che nasconde segreti. Scorre quieto, attraversando monte san Biagio con la pigra aria di chi la sa lunga. Di chi ha visto molte cose. Se ne sta incassato tra le colline, nel silenzio di quei segreti sepolti. Su queste rive, Gaetano Carnevale uccise sua moglie Filomena a colpi d’ascia. Tre colpi. Mentre lei era ignara a fare il bucato, nelle acque scintillanti, in una luminosa giornata di sole. Dopo Gaetano indossò l’abito domenicale e si consegnò alla polizia. Una follia, Una storia a tinte fosche. Orride. Nessuno seppe mai il perché del gesto. Se lo portò, quel perché, con sé Gaetano, quando poco tempo dopo si precipitò da uno dei finestroni del manicomio di Aversa, dove era detenuto. Andrea Carnevale aveva tredici anni, quel giorno del 1974 quando avvenne l’episodio che sconvolse la piccola cittadina al confine con Latina. Andrea ed i suoi sei fratelli, quattro femmine e tre maschi, lasciati drammaticamente soli a convivere con l’orrore di una tragedia che segna per sempre. Qualcosa che non puoi e non sai dimenticare. Un padre uxoricida. Il pallone come compagno, perché la scuola non faceva per lui, ed i tanti piccoli lavori nei quali si impegnava per aiutare una famiglia che viveva arrangiandosi, nascondevano il sogno di diventare un calciatore professionista. Andrea si portò quel dramma negli occhi per tutta la vita. Anche nel sorriso, che profumava eternamente di malinconia. Il calcio nella sua vita alla deriva, come una boa luminosa cui aggrapparsi, per non affogare. Andrea, la sua mente sconvolta. E quell’ infinito coraggio di andare avanti, dentro l’anima che tende a frantumarsi. Il Fondi, a due passi da casa, dove muovere i primi passi. Poi l’Avellino, la Reggiana, il Catania, e l’Udinese, la squadra che lo lanciò per davvero nell’orbita del calcio che contava, l’Udinese, un amore al quale tornerà, alla fine. In veste di osservatore, oggi. Dai friulani lo preleva il Napoli. Quello di Maradona. Andrea, che nascondeva nel cognome l’allegoria di un prossimo futuro da lì a venire, a Napoli trovò il suo incastro.
La città sa custodire i suoi segreti, li tiene sepolti nella esplosione di quella allegria che, spesso, occhieggia dal sipario di una malinconia mai del tutto compresa. Andrea incarnava lo spirito di un luogo abituato al dolore. Il suo calcio era prodigo di forza mentale. Sradicava ed abbatteva, con la furia che veniva da lontano. Una fiera tenuta alla catena, che ringhiava sorda, quando esplodeva il suo tiro affilato come un rasoio. E poi via, a correre in tondo, la chioma al vento, il dito a disegnare ghirigori nell`aria in un gesto di esultanza fanciullesco. In ricordo di una fanciullezza ghermita via da quel dramma. Segnò il gol che fece la storia. Uno di quegli otto del suo primo anno in azzurro. Il più importante, tra tutti. Forse il gol più importante tra quelli mai realizzati. Quel 10 maggio del 1987, contro la Fiorentina. Il gol che scatenò il Carnevale. Il destino trova sempre il suo alveo. Dove insediarsi. Conobbe Careca. Sempre al fianco di Diego, in una squadra impossibile da ripetere. Nella notte più incredibile della città, quella della rimonta con la Juventus, nei quarti di Finale di coppa Uefa, la notte che resterà eterna per chi tifa Napoli, realizzò un’altra rete indimenticabile. Quella del due a zero. Quella che portò gli azzurri per mano fino al minuto 119. Il minuto di Renica. Ed ancora contro il Bayern, spianò la strada alla finale contro lo Stoccarda. Suo il gol del due a zero. Andrea fece la storia. Nella squadra che era di Maradona, lui, l’ uomo con la malinconia negli occhi, ed il cognome come un tripudio di emozioni colorate, vestì la città del sogno più bello. Lui che fuggiva da un passato orribile, è oggi parte di un altro passato. Meraviglioso. Perchè il passato non si dimentica, e non è solo lacrime di dolore. Ma anche di gioia. Infinita.
Stefano Iaconis