L’allarme scattò il 31 ottobre, le immagini di Diego Armando Maradona claudicante preoccupavano. Il neurochirurgo Luque, la psichiatra Cosachov e lo psicologo Diaz decisero di ricoverarlo. «
È confuso, perso, rigido». «Demenza alcolica, o forse morbo di Parkinson».
Il ricovero – si rileva dalle chat – doveva essere giustificato con la necessità di effettuare alcuni controlli di routine. Diego era allo stremo. I medici della prima struttura sanitaria contattata, la Ipensa di La Plata, respinsero la richiesta di un’operazione per un edema subdurale alla testa: «Non c’è necessità». Diego, allora, venne trasferito nella clinica Olivos. Il neurochirurgo Luque avrebbe dichiarato di aver operato lui il celebre paziente e amico, in realtà – secondo le testimonianze raccolte in questi giorni – ad intervenire era stato il collega Rubino.
I medici della clinica Olivos, contrari alle dimissioni di Maradona, fecero firmare una lettera ai familiari (le figlie Dalma e Jana) e al dottor Luque: si assunsero la responsabilità della sua gestione in una casa, quella a Tigre, a pochi chilometri da Buenos Aires, dove sarebbe morto il 25 novembre. Le condizioni dell’ex campione erano gravi e l’assistenza inadeguata. I medici sembravano scherzare nei loro messaggi. Uno di essi scriveva: «O ci ritirano la tessera o siamo dei semidei». I familiari erano preoccupati per le condizioni di Maradona, che respirava male durante il sonno, aveva la depressione, urinava poco ed era gonfio. «Fatelo bere di più», il suggerimento di uno dei medici. Nessuno sarebbe andato a visitarlo nei giorni successivi. Poi la morte e le accuse di omicidio colposo.
Il Mattino