Luca Ferlaino: “Vi racconto i riti scaramantici anti-malocchio di mio padre”

Luca Ferlaino aveva solo 14 anni quando Maradona arrivò in Italia, ma ricorda ancora il primo incontro. «Fu una trattativa assai lunga. Poi venne fuori che tutto era saltato, e anche mio padre cominciò a credere che fosse finito il nostro grande sogno. Invece, dopo la più lunga – e trepidante – delle notti, mi telefonò: Vieni qui, Luca, devo presentarti una persona». 
Diego Armando?
«Eravamo a Capri, in vacanza. Per la verità, proprio quel giorno mi trovavo a Positano da mia madre, loro erano già separati. Pensai che mi volesse a Capri per fare compagnia al figlio, quasi sempre un po’ noioso, di qualche amico suo».
Invece le aveva riservato una bella sorpresa.
«Fu un momento incredibile».
Un pezzo di storia del calcio mondiale.
«Entrai al Quisisana e lo vidi seduto su un divano nella hall dell’albergo: Oddio, Maradona in carne e ossa. Quando poi ci fu la presentazione ufficiale, tutti pensavano che fosse arrivato direttamente da Barcellona. E invece era a Capri con noi».
Ha parlato di un sogno.
«E insieme di un lampo di genio senza il quale quel sogno probabilmente si sarebbe infranto».
Racconti.
«Per la verità lo raccontò proprio mio padre, qualche anno fa: è un episodio noto, ma straordinario. Una trovata pazzesca. Quel 30 giugno il calciomercato era agli sgoccioli e mancava ancora il contratto firmato da Maradona».
Bisognava fare presto.
«Purtroppo non c’era più tempo. Senza dire niente a nessuno mio padre partì per Milano, andò alla Lega Calcio e consegnò una busta vuota, lasciando immaginare di aver depositato il contratto firmato».
Non era vero?
«Non era ancora vero».
Quindi?
«Volò a Barcellona, raccolse la firma di Diego e in nottata tornò a Milano. A quel punto con un escamotage si fece accompagnare dalla guardia giurata negli uffici e riuscì a sostituire la busta vuota con quella piena».
Possibile?
«Ancora me lo domando. Non posso nascondere che non so più se è leggenda o verità. In ogni caso erano altri tempi, un altro mondo, e va bene lo stesso: Maradona arrivò a Napoli e fu sufficiente per tutti».
Allo stadio con papà Ferlaino. Quanto si divertiva?
«Molto meno che con i miei amici. Avevo sempre il biglietto tribuna autorità e ogni volta litigavo con i controllori ai varchi dello stadio perché non volevano farmi accedere in Curva dove invece avevo appuntamento con i compagni».
Non poteva farsi dare direttamente il biglietto di Curva?
«No, perché mio padre avrebbe voluto vedere la partita con me. Ci provava sempre. Qualche volta per accontentarlo assistevo al primo tempo con lui e all’altro con gli amici. Tanto lo sapevo: papà all’inizio del secondo tempo spariva».
Il presidente, dunque, allo stadio assisteva solo al primo tempo?
«Sempre. Poi si vaporizzava letteralmente».
Una curiosità: dove andava?
«Mai capito fino in fondo. Per anni abbiamo pensato che andasse a pregare sulla tomba di nostro nonno, poi qualcuno ci disse che invece si rintanava nell’ex cinema Ambasciatori, quando abitavamo a via Crispi, a due passi da casa. Alla fine scoprimmo che, in realtà, si tratteneva a casa di un’amica alla quale era molto affezionato».
C’era una ragione in particolare?
«Solo scaramanzia. Mio padre viveva tra riti, amuleti, malocchio… In questo caso si era convinto che la sua amica portasse bene alla squadra e durante il secondo tempo doveva stare assolutamente con lei altrimenti la sconfitta sarebbe stata garantita».
Guai a finire nella categoria iettatori, insomma.
«Per carità. E io, benché fossi il figlio, ci sono andato molto vicino».
Suo padre pensava che portasse male?
«Lui no, ma ci hanno provato a farglielo credere». 
In che modo?
«Quando, dopo essermi laureato, iniziai a lavorare nel Calcio Napoli – e mi occupavo di marketing – devo ritenere che qualcuno non mi vedesse di buon occhio. Lo sapevano tutti che papà era fissato con la scaramanzia e, con una buona dose di perfidia, decisero di provare a convincerlo che ero una ciucciuettola»
Non lo era, ovviamente. 
«Certo che no. E però accadde che in quell’anno il Napoli cominciò a non andare troppo bene, ricordo che era l’epoca di Gigi Simoni. E così abbinavano le sconfitte della squadra a qualche evento che, se pur vagamente, mi coinvolgeva. Gli scrissero perfino una lettera anonima per dirgli che il menagramo ero io».
Tutto sempre collegato al Napoli, manco a dirlo.
«Per intenderci: papà era tutta una cosa con il Napoli, una vera e propria simbiosi, non concepiva altro e aveva un solo obiettivo, quello di vincere ogni domenica. La partita persa si trasformava in un dramma familiare, un lutto, un evento catastrofico. Rimaneva un giorno intero in pigiama ma senza dormire. Mangiava solamente». 
Pure di notte?
«Sempre. Per evitare che esagerasse piazzammo in frigorifero un maialino di plastica che – grazie a luci e sensori – grugniva a più non posso ogni volta che si apriva la porta. E grugniva così forte da svegliare tutta la famiglia. All’inizio protestò, poi non disse più nulla. Aveva scoperto la dispensa».

Intervista a cura di Maria Chiara Ausilio (Il Mattino)

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