Erano gli anni del cha cha cha. Gli anni del lancio della Fiat “500”, due posti dinanzi ed una panchetta posteriore. Gli anni degli “Angeli dalla faccia sporca”: Angelillo, Maschio ed Omar Sivori. Il trio della nazionale argentina di calcio, campione del Sudamerica nel ’57. Il soprannome lo affibbiò loro un massaggiatore della nazionale della Albiceleste, che li vedeva sempre uscire dal campo con il viso sporco di fango e polvere. Claudio Valentin Angelillo ed Humberto Maschio, finirono all’ Inter. Omar Sivori, a sua volta detto “El cabezon”, per via di quella lucente massa di capelli, lustri come l’ala di un giovane corvo, si accasò alla Juventus. Quella di Boniperti e John Charles. Sivori veniva dalla strada, dalla periferia di Buenos Aires, San Nicolàs de los arroyos, dove il calcio si mescolava alle zuffe. Ribelle, con l’aria di un capo Apache, il genio futeboolistico che gli vorticava nei piedi come uno spirito capace di qualunque scherzo, beffardo ed irridente, irriverente e funambolico, Sivori varcò i confini di qualsiasi fantasia fino a quel momento conosciuta, incantando l’Italia con un calcio abitato dal prodigio dell’ impossibile. In un tempo nel quale la televisione nasceva illuminando il talento di Sivori, incastonandolo nelle piccole didascalie di brevissimi filmati, El cabezon visse la sua leggenda attraverso i racconti degli aedi della penna. Sivori si fece racconto. Salendo verso l’Olimpo che avrebbe abitato nel ricordi di chi lo aveva visto giocare. Mai si era visto prima qualcosa di simile. Indolente per natura, rissoso e strafottente, era capace di fascino latino che incantava. Il suo modo di affrontare la partita, con i calzettoni perennemente calati alle caviglie, gli stinchi nudi offerti al martirio dell’ avversario, che incitavano alla battaglia, catturava la fantasia. Il suo dribbling era poesia. Incarnava l’astuzia. Sivori danzava. Il “tunnel”, porta impresso il suo marchio. Quella giocata con la quale abusava del suo marcatore, facendogli passare la sfera tra le gambe larghe, per poi torearlo con una veronica, tornando sui suoi passi, e ripetendola. Era un provocatore. Ed un insofferente per natura. Insolente perfino. Fu per questo che conobbe Napoli. La Juve era allenata da Heriberto Herrera, che con il celebre mago Helenio, quello dell’Internazionale dei trionfi, aveva soltanto il cognome in comune. E nessun grado di parentela. Là dove Helenio brillava per empatia, Heriberto sapeva rendersi inviso ai calciatori. Il teoretico del “movemiento”, l’ante litteram del pressing a tutto campo, brillava per spocchia ed egocentrismo. I suoi allenamenti erano talmente duri da suscitare l’ ira appena celata dei suoi calciatori. L’ irascibile Sivori finì in contrasto con il tecnico, dopo una serie di ripetuti ammutinamenti, e fu messo sul mercato. Achille Lauro vendette due navi, per la somma di settanta milioni, e portò Omar sotto il Vesuvio. Quando l’argentino atterrò a Capodichino c`erano migliaia di persone ad attenderlo. Sivori a Napoli divenne Omàr. Il gioco di parole fu rapido e semplicissimo. ‘O mare ‘e Napule. Visse sul golfo stagioni indimenticabili. La gente impazziva per l’argentino dai calzettoni ripiegati, che correva sul prato con la palla incollata al piede. Che non si tirava indietro mai. Che era capace di arrivare in porta da solo, in una nuvola di dribbling impossibili da seguire con lo sguardo, e poi attendere sulla linea di porta, con la suola immobile sulla sfera, che i suoi avversari, saltati un attimo prima, provassero a rinvenire su di lui, per toccare dolcemente la palla nella rete. La prima volta che vidi Maradona allo stadio, nel delirio della gente per una giocata di Diego, un uomo anziano, che mi stava accanto disse guardandomi, con un sorriso: “Sti cose ‘cca `’e faceva solo Sivori”. Lo tradì il suo modo di interpretare la partita come una battaglia. Collezionò 33 giornate di squalifica nel campionato italiano, un record difficile da eguagliare. Ed ogni volta che incrociava la Juve di Herrera sul suo cammino con la maglia azzurra, erano corride. Perchè Omar non aveva mai dimenticato lo sgarbo. Il Napoli, con lui, sfiorò il titolo. Indimenticabile il secondo posto, quello giocando in coppia con Altafini. Sebbene fosse sul tramonto della carriera. Durante una tournee con la nazionale italiana, nella quale era allineato come oriundo, e dove aveva ricomposto il trio degli “Angeli dalla faccia sporca”, si procurò un infortunio alla gamba. Dal quale non si riprese. Il suo ritiro dal calcio avvenne in maniera improvvisa. Ed avvolto dalla leggenda dell’aneddoto. Visse il ritiro come aveva vissuto sul prato di calcio. Accadde durante un match contro la Juventus, al San Paolo, vinto dal Napoli due ad uno con una doppietta di Montefusco. Heriberto Herrera gli aveva messo sulle tracce Favalli, arcigno marcatore, con l’ ordine di procurare il tormento al genio argentino. Finì malissimo. A seguito di un fallo subìto, Sivori si scagliò su Favalli, falciandolo violentemente. Salvadori, il capitano dei bianconeri, corse in soccorso del compagno. Panzanato, il biondo stopper napoletano si gettò nella mischia a sua volta. Finì in rissa. E nel sottopassaggio le botte continuarono. Sivori si prese sei giornate di squalifica e decise di smettere con il calcio. Furioso per la squalifica. Era il primo dicembre 1968. Sivori fuggì in Argentina, e sebbene il River Plate, la sua antica squadra, cercasse di metterlo sotto contratto, disse basta. Aveva trentatrè anni. Quindici anni dopo il suo mito si reincarnò dentro un altro argentino. Che finì il lavoro. Scavalcandolo nell’Olimpo del ricordo dei napoletani. Dove Sivori vive comunque. Anche se solo un poco in disparte.
Stefano Iaconis