Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Ezechiele, il Pocho”

Rotolava sul prato. E si rialzava, poi. Carponi, le mani a far da leva sull’erba, le gambe a mulinare l’aria, come due molle pronte a schizzare su. Qualche passo stando semisdraiato, sfidando le leggi di gravità, e poi di nuovo in piedi. Per riprendere la corsa, più veloce di prima. Il Pocho Lavezzi era un pupazzo di gomma, dalla potenza esplosiva, espressa dentro una ferocia agonistica che spezzava le partite frantumandole dentro mille episodi che sapevano di arrembaggio. Genio e sregolatezza, tutta argentina. Quando accendeva la lampadina del suo calcio creativo, tutto scatti, dribbling, cambi di direzione imprevedibili, era il segnale per gli avversari che sarebbe incominciata la sarabanda pirotecnica del Napoli. Ezequiel di nome, come il lupo dei cartoni disneyani, aveva di quel magnifico animale l’astuzia. “Pocholo”, abbreviato in Pocho, per tutti, dal nome del cane posseduto da bambino, e come quel suo amico peloso amava seminare il caos in casa, irrequieto e terribilmente giocherellone, lui disastrava le difese avversaria, spazzandole come un imprendibile vento calcistico. Napoli lo scoprì un mercoledì sera. Di fronte il Pisa, nel turno di apertura di coppa Italia. Lavezzi realizzò una tripletta. Primo giocatore dopo tempo immemore. L’ ultimo era stato Careca, in un novembrino pomeriggio torinese. Fino a quel momento era stato un Carneade venuto dal San Lorenzo, con il quale aveva vinto il torneo di Clausura in Argentina, via Genoa. Era il 2007. Con i rossoblù aveva fatto il ritiro, e giocato un paio di amichevoli, la stagione precedente. Poi un illecito sportivo aveva precipitato i liguri in serie C, e Lavezzi se ne era tornato in patria. Fino alla nuova avventura a Napoli. Tutto avvenne rapidamente. Lavezzi si prese cuore, polmoni, anima, della tifoseria. Per antico retaggio argentino. Quello che infiamma sempre il ricordo. Rullando, in un pomeriggio di lì a poco, si prese anche il coro che era stato di Diego. “Olè, olè olè olè, Pocho Pocho”, cantava il popolo. E lui mostrava i muscoli alla torcida. Impazzando letteralmente nella fantasia del tifo. Dei suoi 38 gol, pochi, ma Ezequiel non era goleador nel senso totalitario del termine, alcuni sono marchiati a fuoco. Quello di Udine, per esempio, nel cinque a zero di esordio in trasferta del nuovo Napoli di DeLa.

Come quello a Cagliari, nel morire di un pomeriggio sardo pieno di livore ed astio. Un coast to coast, una cavalcata di ottanta metri, lo sprigionarsi della potenza. Assoluta. Come quei due al Chelsea. In un ottavo di finale di Champions, contro i blues che poi diventeranno campioni d’Europa. Come quello ad Anfield, nella notte di Liverpool. Il primo gol della storia del Napoli in uno degli stadi che hanno fatto la storia del calcio. Come quello a Roma, contro la Juventus, nella finale di coppa Italia. E poi sempre a mostrare i muscoli, ogni volta. Dicevano che non potesse uscire di casa. Perchè le donne napoletane sospiravano così tanto per lui, e per quei suoi occhi da scugnizzo, dal colore del carbone ardente, da lastricare i passi sotto la sua abitazione di dichiarazioni d’amore. Dissero che fosse stato questo uno dei motivi per i quali lasciò la città. La fidanzata non ne poteva più delle attenzioni che le bellezze napoletane dedicavano al suo Pocho. Scegliendo Parigi. Il Lungosenna, da percorrere nel crepuscolo. Accompagnato da quel vento turbinante come il suo football. Chissà’ se ancora, nel riflesso delle acque del fiume, ci scorga l’ansa di Posillipo. E sorrida. Come un piccolo Ezechiele Pocho.

Stefano Iaconis

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