Se fosse semplicemente un problema di veleno, sarebbe persino facile risolverla: e però intorno al Napoli, anzi dentro, c’è dell’altro, perché persino i numeri vanno letti e semmai anche analizzati. Se dipendesse banalmente dalla «fame», o se bisognasse limitarsi ad «annusare il pericolo», diventerebbe tutto drasticamente ovvio: mentre invece, tra le pieghe d’una crisi (che non è solo quella del gol), si nascondono comunque ragioni più profonde, che allontanano dall’Europa e costruiscono una bolla densa di paura. Raccontano le statistiche di ventinove tiri nell’ultima, delle difficoltà di segnare, del disagio degli attaccanti (in bilancio sono sette, come nessuno in serie A: Insigne, Lozano, Mertens, Milik, Osimhen, Petagna, Politano), degli incidenti e degli accidenti, delle percentuali realizzative (inadeguate rispetto alle occasioni prodotte): però il calcio non è un algoritmo e se la sconfitta con lo Spezia rientra tra la causalità, i quattro punti nelle ultime cinque rappresentano la soglia del terrore: perché il Napoli, nell’ultimo mese, è franato su se stesso, si è perso, ha smesso di riconoscere la sua stessa entità di squadra, ha lasciato che il proprio talento germogliasse poi sfiorisse, a pochi metri da quella linea bianca, la sottile frontiera tra il tormento e l’estasi. A. Giordano (Cds)