Il calcio è bugia: chissà! Magari deve averlo pensato anche negli spogliatoi di Istanbul, mentre il Milan stava passeggiando sul suo Liverpool: 3-0 al 45′ e la Champions già pareva vestita di rossonero. Si sa cosa successe poi. Non è mai finita, anche quando sembra lo sia, e in quel suo lento girovagare per il Mondo, tra le circa mille panchine che hanno adornato le sue giornate, Rafa Benitez poi ne ha fatte altre, e altre ne ha dette, sino a riempire un salone di trofei, nel quale non manca niente, e ogni coppa sembra adagiata in quella placida «normalità» che lo sostiene, nel buon senso che cosparge il proprio vissuto. Rafa Benitez è un ragazzino di sessant’anni che non ha mai perso di vista ciò che intorno va evolvendosi: e però, ogni tanto, val la pena anche guardare indietro, scorgere se stesso nelle diapositive della memoria, riappropriarsi – anche per un solo istante – d’una Italia che gli è appartenuta per davvero. E ci si può lasciare andare, tra i rimbalzi della «sua» Inter-Napoli, per starsene a cogliere le trasformazioni, pensando che lui, in fondo, senza finire né fuorigioco e né fuori dal tempo, è rimasto il galantuomo di sempre.
Si scrive Inter-Napoli e, fatalmente, si pensa a Rafa Benitez. «La mia Italia è in queste due tappe, diverse tra loro, che però professionalmente e umanamente mi hanno arricchito, lasciandomi amici ovunque. All’Inter rimasi poco, erano reduci dal Triplete e non mi fu permesso di allungare quell’avventura nonostante avessimo vinto la Supercoppa italiana e la Coppa del Mondo per club. Nel biennio di Napoli, invece, fummo in grado di attirare l’attenzione di calciatori con qualità e spessore. Con quella Juventus, «intrattabile» in campionato, fummo capaci di vincere Coppa Italia e Supercoppa a Doha. Vanno riconosciuti a De Laurentiis enormi meriti: i suoi sforzi economici servirono per compiere un balzo decisivo verso l’internazionalizzazione del club».
Stiamo ormai dentro questa Inter-Napoli: chi avvertirà maggiori responsabilità?
«Per la Storia e per i costi affrontati, sicuramente l’Inter, che vorrebbe vincere in questa stagione nella quale la Juve dà l’impressione – ma è solo un’impressione – di aver allentato. Le pressioni sono dei nerazzurri».
Giochiamola, giocandoci intorno: «man of the match»? «Insigne o Mertens per il Napoli; Lukaku per l’Inter. Però Conte ha anche Lautaro, che è pericoloso, ed Eriksen, che in Premier, nel Tottenham offensivo, è stato un riferimento sistematico».
Del suo Napoli resiste ancora qualcuno: Ghoulam, Koulibaly, Insigne e Mertens. «Vero: e sono la spina dorsale della squadra. Mi piace vederli giocare e sono orgoglioso di aver offerto il mio contributo per la loro crescita. Ma i complimenti vanno fatti a loro: sono stati bravi, lavorando duro, e sono riusciti a restare ad alti livelli».
Una battutina: più forte questo Napoli o il suo? «Il Napoli mi piace, Gattuso sta facendo un bel lavoro, la squadra è forte e competitiva. Il Napoli del 2013 ha iniziato un ciclo, con calciatori che non conoscevano il campionato italiano. Quello attuale ha uomini che ormai stanno insieme da anni. Se giocassimo una partita tra questa squadra e la nostra dell’epoca, sarei pure indotto a sospettare che ci possa scappare il pareggio, in maniera politicamente corretta. Però credo che vinceremmo, perché Koulibaly, Mertens, Ghoulam e Insigne giocherebbero con noi».
Chi pensa vinca lo scudetto? «Il Milan ha tanti meriti, stanno facendo bene pure Sassuolo e Roma: io non possiedo la verità, ma immagino che alla fine diventi una sfida tra Inter, Juve e Napoli. Il Covid ha stravolto le abitudini, ha ridotto e quasi cancellato il ritiro pre-campionato. I valori emergeranno alla distanza e la Juve che ha optato per un allenatore debuttante, dunque senza esperienza in panchina, verrà fuori. Pirlo conosce il calcio e farà bene in un club che saprà aiutarlo pazientemente per arrivare al successo».
In Spagna non è più il tempo di Real Barcellona.
«Vale anche per loro il principio espresso sulla Juventus. Un po’ alla volta Real e Barça riprenderanno i loro ritmi e imporranno la loro qualità superiore».
La Francia, per ora, è Lilla e Lione… «Insidie che non si possono ignorare. Ma il Psg ha una potere economico indiscutibile e questo è un vantaggio che può anche risultare determinante».
Da casa sua, a Liverpool, ha il panorama della Premier. «I due Manchester hanno un partita in meno, rientreranno nella scia delle prime. E quindi il discorso rimarrà riservato alle solite. Ma è ancora presto per dire cosa accadrà, e questo ragionamento vale per chiunque. Se e quando torneranno a riempirsi gli stadi, andranno verificate le reazioni delle varie squadre. E poi aspettiamo il vaccino: cambierà il calcio così come ha fatto il virus?».
In Germania ora comanda il Bayer Leverkusen. «Il Bayern Monaco mi sembra più forte, anche se qualcuno può sospettare che siano sazi per tutto ciò che hanno conquistato. Io recentemente ho visto Bayern-Lipsia, finita 3-3, e a me invece è sembrata ancora una squadra piena di intensità, con una gran gestione della palla e una notevole fiducia in se stessa».
La Champions, quando tornerà, farà tremare le italiane, Lazio e Atalanta soprattutto. «Agli ottavi, è difficile pensare di pescare avversari morbidi. Ma ciò varrà anche per Bayern e per Real. Il livello internazionale, in quella fase, è rilevante e nelle due partite tutto può succedere».
Lei ha vinto ovunque – Spagna, Inghilterra, Italia – poi ha scelto la Cina: cosa ha trovato e cosa pensa succederà? «La cultura dei Paesi talvolta è condizionate. I bambini cinesi iniziano a giocare più tardi – intorno a 13 anni – rispetto a quelli europei, perché per i genitori l’istruzione ha la priorità. Il Dalian Pro ha modificato certe abitudini, spingendo a iniziare i bimbi al football sin dai sei anni. Siamo dinnanzi a un progetto ambizioso, in una città dello sport con 14 campi da gioco, residence, palestre, centro medico. Mi viene da dire che ci troviamo davanti alla nuova frontiera del calcio cinese».
Il calcio, da quando ha cominciato a sedersi in panchina, è un altro… «Avevo un Commodore 64 e due Vhs che collegavo per montare le immagini delle nostre azioni o quelle gli avversari che avremmo dovuto affrontare. Quei video li avrei poi mostrati ai ragazzi, sull’autobus, nel tragitto che ci avrebbe portato allo stadio. Però oggi come allora, la differenza in campo la fanno sempre i calciatori, ma in squadre tatticamente equilibrate».
Ha scritto recentemente, sul suo sito ufficiale, quanto sia diventato importante l’uso della tecnologia…. «Adesso utilizzo un software che ho progettato tempo fa, c’è un data base con esercizi per gli allenamenti e un altro per raccogliere dati e statistiche dei giocatori eventualmente da acquistare. Negli archivi ci sono le informazioni delle mie squadre e di quelle rivali. In poche ore facciamo ciò che all’epoca andava allestito in un paio di giorni e tutto questo grazie all’aiuto del proprio staff. Gli allenatori sono diversi e però uguali, perché in lui deve essere sempre immediata la capacità di prendere la decisione giusta nel minor tempo possibile, quello che nel corso di una partita ti serve per intervenire nel modo più appropriato, possibilmente il più felice».
Alcune mutazioni genetiche: i portieri, sui retro-passaggi, devono usare i piedi; in area si gioca prima che esca la palla; il Var toglie i gol o li concede. Cos’altro si aspetta, Rafa? «Il Var che garantisce giustizia è la novità che ha avuto effetti più equi: questa è la strada giusta, ma ho la sensazione che si debba ancora intervenire, affinché lo spettacolo non sia alterato. Sul resto, ho il sospetto che il calcio si stia imbattendo in mode, alcune anche passeggere, e l’uscita difensiva con il palleggio rientra in questa categoria. Faccio fatica a capire che senso abbia, se non quello di provare ad aprirsi il campo, rischiare il palleggio in certe zone assai pericolose».
Ma a Benitez piace più questo calcio o quello? «Ogni epoca ha la sua bellezza e immagino sia superfluo chiedersi se Di Stefano, Pelé, Maradona, Gigi Riva, Zola, Cruyff o Beckenbauer giocherebbero egualmente in questo Millennio. La risposta mi sembra scontata, perché il talento dei calciatori che ho citato, come di altri, è eterno, non conosce stagioni. E’ però vero che stiamo vivendo un calcio più fisico, più veloce, tecnicamente e tatticamente più evoluto. Probabilmente è questa la nuova sfida per gli allenatori».
In Italia intanto sono arrivate proprietà straniere, come altrove… «E’ un fenomeno che mi sembra possa ulteriormente allargarsi, soprattutto nei più importanti campionati. Il calcio ha un’enorme importanza dal punto di vista sociale ed economico, è un veicolo per promuovere attività o immagine che imprenditori facoltosi hanno fuori dal calcio. E però non è semplice trovare l’equilibrio, ancora una volta la parola-chiave, tra sport ed economia, perché il binomio funzioni: ora, a esempio, si investirà nella formazione ma non sparirà chi continuerà a spendere oltre i propri mezzi per acquistare quei fuoriclasse che poi consentano di arrivare al successo nel breve-termine. Saranno di meno, ma esisteranno».
Ha ancora un anno di contratto in Cina: la aspettiamo in Italia o in Europa, tra un anno? «Qui sono trattato con rispetto: vivo in un club nel quale gli attestati di stima dei dirigenti, dei dipendenti, dei giocatori e dei tifosi appartengono alla quotidianità. Tutto vogliono che il Dalian e il calcio cinese crescano, nonostante ci sia consapevolezza della distanza dall’Europa. E io non considero nient’altro di concreto, sono concentrato sul Dalian Pro».
Sono stati gironi duri, per chi ama questo universo, con la scomparsa di Maradona e di Paolo Rossi. «Come in una staffetta, quasi fosse un testimone, la Coppa del Mondo dell’82 passò dalle mani di Rossi a quelle di Diego nell’86. Il destino stavolta è stato perverso. Hanno segnato un’epoca, in Italia e nel Mondo, e sono stati idoli, per meriti indiscutibili, ognuno nella sua grandezza, come ha detto il campo. E’ un dolore che resta».
A. Giordano (Cds)