Fu l’ ultimo al San Paolo, oggi Diego Armando Maradona di Fuorigrotta, ad indossare la “diez”. La gloriosa dieci del suo idolo, la maglia di Diego. Era il 30 Aprile del 2006, e di fronte c’ era il Frosinone. L’ultimo in assoluto, ad indossare il numero per eccellenza, in casacca azzurra, fu però Mariano Bogliacino, Ed accadde a Lanciano. Erano gli anni bui di un pellegrinaggio infinito e malinconico tra la serie C e la serie B di un Napoli che aveva messo in soffitta tutta la recente gloria passata. Il “Pampa” Roberto Sosa, quel giorno, segnò un gol. E che gol. Un gol alla Maradona, con una girata dal limite dell’ area, in mezza forbice, una palombella lemme lemme, precisa nella sua traiettoria, a scavalcare la linea dei difensori del Frosinone, con il portiere fuori causa. Poi il Pampa si sfilò la iconica casacca, e fece un giro di campo esponendo la scritta “chi ama non dimentica”. In lacrime. Pianse senza freni, scatenando la medesima emozione che aveva predato il suo animo di innamorato di Maradona, sugli spalti. Perchè le lacrime sono gioia, ma anche tristezza. Esultanza e ricordo. Sosa è come le porte di Ninive, nella memoria recente dei tifosi della maglia azzurra. Si pensa a lui, e si imbocca la strada di una storia comunque meravigliosa. Perchè anche dentro quegli anni, vivono piccole memorie da scaffalare nell’ infinito romanzo calcistico partenopeo. Una di queste, per diritto, appartiene a lui, ad uno dei centravanti più amati dal popolo del tifo. Un argentino. Perchè qui gli argentini sono sempre di casa. Loro, forse, un pochino sempre di più. I suoi gol furono le briciole di pollicino disseminate per riscrivere la favola del ritorno nella massima serie. Lo chiamavano il Pampa, in onore alla terra dalla quale proveniva. Una terra di gauchos, uomini simili ai cow boys delle grandi pianure americane lanciatori di bolas, le palline di pietra arrotolate intorno a lacci di cuoio, usate per catturare le prede al galoppo dei loro piccoli broncos. Uomini di lazos e cappelli ornati da nappine a falde larghe. Una terra selvaggia, madre di uomini forti. Di uomini che amano sostare di notte dinanzi ai fuochi. Raccontando di imprese antiche. Roberto Sosa era un perfetto gaucho. Legò immediatamente con Napoli, senza mai cavalcare l’ onda del populismo, in perfetta simbiosi amorosa con il luogo. Si ergeva come un totem, sfoderando il coraggio che faceva impazzire il tifo. E’ stato forse il solo, capace di realizzare con la medesima maglia gol in tutte e tre le categorie professionistiche. Esordendo su rigore in un Napoli Chieti 1 a 2. Anni bui. Rischiarati dai suoi sorrisi, dai suoi gesti fanciulleschi dopo il gol. Dalla sua linguaccia esibita felice, dopo ogni marcatura. Una linguaccia al destino, che voltava le spalle agli azzurri. Mostrava la lingua ed allargava le braccia, correndo incontro alla gioia. Segnava da goleador puro, da centrattacco che nell’area di rigore ha il suo tinello di casa. Raggiungeva il gol in ogni modo possibile. Con il calcio di rigore, che tirava prendendosene la responsabilità, in una squadra nella quale non mancavano i piedi buoni, passando per il destro ed il sinistro, fino al colpo di testa, nel quale era autentico maestro. Era amatissimo, è ancora amatissimo. Portatore sano di una allegria calcistica capace di far scoppiettare bollicine di gioia nel calice di un periodo calcistico pesante come una zavorra. Fu lui a realizzare, nel disastroso spareggio di Avellino, quello sanguinoso che costò una promozione in B proprio a favore dei cugini irpini, il gol che sul 2 a 0 per i lupi, riaccese la speranza. Che rimase solo tale. Promise che avrebbe riportato il Napoli nella massima serie. E ci riuscì, due anni dopo. Ad Udine è rimasto indimenticabile l’episodio legato al suo gol, il quinto di una goleada azzurra al Friuli, nella trasferta di apertura del ritorno in serie A. Sosa sollevò le braccia in segno di scusa, i palmi delle mani in avanti, dopo aver realizzato la rete. Ed io suo vecchio stadio gli tributò un fragoroso omaggio, un battimani inarrestabile. Un segno di amore. Perchè chi ama non dimentica, ma chi sa farsi amare non viene dimenticato. Mai.
Stefano Iaconis