Sandro Mazzola: “Ammiro Insigne, è uno all’ antica, fa cose rare”

«Antonio Conte lo immagino come un martello: ogni momento lo passerà a ricordare ai suoi la figuraccia per l’eliminazione dalla Champions. E quella ferita, che ancora brucia in tutti noi, servirà a dare energia per il campionato». Sandro Mazzola è una delle icone del calcio italiano, non solo la bandiera dell’Inter.
Mazzola, cosa può dire la gara di domani sera a San Siro? «È importante per l’Inter e non per il Napoli. Perché la mazzata che avuto con lo 0-0 con lo Shakthar non è mica dimenticata. Se domani non vince, sarà un altro gioco al massacro. Il Napoli arriva più sereno, se perde non è una tragedia e sa bene Gattuso che anche una sconfitta non taglia certo gli azzurri fuori dalla lotta per lo scudetto. La stagione è ancora lunghissima».
Sono giorni tristi, prima la morte di Maradona, poi quella di Paolo Rossi. «Due dolori fortissimi. Ho sempre visto con ammirazione Diego: perché anche io, nel mio piccolo, quando vedevo la mia Inter o l’Italia in difficoltà pensavo a cosa potermi inventare per fare gol e sbloccare la situazione. Qualche volta mi riusciva, altre no. Poi arrivò lui e vedevo che era capace di fare in campo, nella realtà, quello che io magari avevo solo tentato di fare altre volte. Pablito, invece, è riuscito a vendicare la mia generazione che il Mondiale lo ha solo accarezzato».
Vincere a Milano non è più proibito come lo era ai suoi tempi? «È tutto in prescrizione e lo confesso: a Gonella gliene dissi di tutti i colori nel primo tempo di quella domenica di marzo del 1971. Il Napoli vinceva, noi eravamo in 10 ed entrai nello spogliatoio: Guardi, lei sta arbitrando malissimo e ci farà perdere la partita e lo scudetto, se ne assumerà la responsabilità e le colpe. E non garantisco su come la gente allo stadio la prenderà. Era quello che pensavo, non erano minacce: ero nero perché davvero ero convinto che ci avesse danneggiati. Per fortuna, poi arbitrò bene nella ripresa… Fu un errore, non dovevo farlo, ne parlai anche con Juliano tante volte e lui mi ha sempre perdonato».
È un campionato, questo, finalmente equilibrato? «C’è Gattuso che è una specie di sergente di ferro, alla Bersellini. Io ero dirigente ed Eugenio allenatore, urlava sempre, era sempre lì a chiedere sacrifici, a pretendere allenamenti severi. La prima volta vedevi che i calciatori se ne infischiavano, la seconda che ci pensavano e la terza che erano pronti a buttarsi nel fuoco per lui perché capivano che le parole erano quelle giuste. Ecco, Rino mi pare proprio un tipo così, uno che con le parole e il lavoro può portare la squadra dove vuole lui». 
Il Milan che pareggia col Parma la sorprende? «Ma no, perché qui non c’è nessuno che sembra in grado di prendere la rincorsa e non farsi prendere come ha sempre fatto la Juventus. Sarà una stagione così e quel che conta è arrivare in primavera in buone condizioni. Inutile dirvi chi è che spero che non arrivi al top a marzo…».
Chi è il calciatore di quelli che domani scenderanno in campo che più ammira? «Tutta la vita, Insigne. È uno ancora all’antica, quando è in giornata con il pallone tra i piedi può saltare l’uomo e inventarsi qualcosa che vale la pena poi di rivedere. Sembra una cosa rara. E poi sta facendo quello che ai miei tempi era la regola: ha abbracciato il Napoli e ha deciso di esserne il capitano per sempre. È la cosa giusta. Certo, magari un giorno gli dispiacerà non aver vissuto qualche altra esperienza».
Lei si è dispiaciuto di essere rimasto sempre all’Inter? «L’amore per quella maglia mi ha fregato… Magari il Torino di papà Valentino sarebbe stata la mia meta ideale. Ma a un certo punto ho avuto la tentazione di farmi travolgere dall’amore dei napoletani che mi accoglievano sempre tra gli applausi. Sapevo di avere altre due o tre stagioni, ero al San Paolo e dopo il solito delizioso caffè che mi aveva preparato il magazziniere del Napoli Gaetano Masturzo pensai: Ecco, ora vengo qui a godermi questo pubblico. Ma di lasciare Milano poi non ho avuto la forza»

P. Taormina (Il Mattino)

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