I numeri 10 si riconoscevano con un palleggio. Non avevano nemmeno bisogno di guardarsi in faccia. E se uno di loro era Diego Armando Maradona, tutto diventava ancora più facile. La serie A degli anni 80 e dei primi anni 90 era il meglio del meglio che il calcio mondiale potesse desiderare. Perché non c’era solo il Napoli di Maradona e la Juventus di Platini, ma c’era anche il Milan degli olandesi e la Sampdoria dei gemelli del gol: Vialli e Mancini. Il numero 10 della coppia era Roberto (oggi ct della Nazionale più bella dell’ultimo decennio), che rispetto a Maradona aveva 4 anni in meno e ammirava quel fenomeno argentino sbarcato dal Barcellona.
Per voi calciatori delle altre squadre che effetto fu la notizia dell’arrivo di Maradona al Napoli? «Ricordo benissimo il giorno dell’annuncio. Ci sembrava fosse impossibile. Io giocavo nella Sampdoria e con tutti i compagni di squadra accogliemmo la notizia con grande esaltazione. Il suo arrivo rappresentava un sintomo positivo per tutto il campionato».
Poi però, sono arrivate le sfide. «Ho avuto la fortuna di giocarci contro per tanti anni. E, ad oggi, posso dire che si tratta della più grande che potessi avere. E parlo non solo per me, ma so di poter parlare anche per tutti quelli che hanno condiviso quegli anni indimenticabili in campo e fuori. Perché anche la gente sullo stadio era giustamente pazza di lui».
Cosa voleva dire averlo dall’altra parte? «Era certamente uno stimolo in più, anche perché in quegli anni lì la serie A era piena di grandi campioni».
Stagione 1990-91, il Napoli è campione d’Italia ma lei e la sua Sampdoria riuscite a vincere al San Paolo: fu la partita che vi diede la spinta decisiva per lo scudetto? «Era il 18 novembre, quindi il campionato non era iniziato da moltissimo. Però vincere a Napoli, in casa di Maradona e dei campioni in carica fu fondamentale. Ma non è tutto».
Ovvero? «Fu una partita aperta a qualunque risultato. Lui giocò benissimo, ma il destino volle che andasse in un altro modo. Noi facemmo quattro gol, di cui uno davvero meraviglioso: alla Maradona, direi. Vincere a Napoli non era mai facile in quegli anni e quel successo diventò un passaporto per noi per vincere lo scudetto. Resta una data memorabile per noi».
Lei e Maradona appartenete a quella ristretta cerchia di giocatori che hanno vinto in città dove poi non si è vinto più. «È una cosa speciale, anzi è qualcosa di unico. Rimani sempre e comunque nell’immaginario collettivo di tutti i tifosi».
Il rapporto tra voi due numeri 10? «Indossare quella maglia in quel periodo, quando giocava lui, era una cosa speciale perché per tutti noi che avevamo un po’ di quelle sue caratteristiche tattiche e tecniche, Diego rappresentava un punto di riferimento importante».
Solo luci tra voi? «Ma no, ovviamente. Perché in campo ci sono stati anche tanti momenti di tensione dovuti allo sviluppo delle partite, ad esempio quando si protestava».
E poi? «Come per magia, un attimo dopo, tutto finiva lì. Perché prima di essere un grande calciatore era un grande uomo. La stima per uno come lui era naturale».
Magari era più dura per chi doveva marcarlo…
«Innanzitutto perché tutti ne avevano un grande timore reverenziale. Ma dico sempre che la sfortuna dei grandi giocatori di quell’epoca è che non c’erano le regole di oggi».
Altrimenti? «Uno come Maradona avrebbe fatto almeno 1000 gol. Non c’era il Var, gli arbitri non tutelavano i giocatori. I più tecnici come noi venivano massacrati puntualmente».
Lei oggi come lo racconterebbe ai calciatori più giovani? «E come si fa? A parole sarebbe impossibile. Maradona non si può raccontare, si doveva vivere».
Dopo il calcio che rapporto avete avuto? «Chiedevo di lui a Ciro Ferrara, mi informavo sulla sua salute. Poi gli ho mandato un messaggio di auguri al compleanno e mi ha risposto subito».
E quando le hanno dato la notizia della morte mercoledì sera? «Stavo entrando allo stadio per vedere Bologna-Spezia. Non ci potevo credere, speravo fosse una fake news».
B. Majorano (Il Mattino)