Platini e Maradona, si diceva, avevano in comune soltanto il numero 10. «E anche sotto questo aspetto eravamo diversi: più attaccante lui, una seconda punta».
Platini avrebbe potuto giocare con Maradona? «Magari sarebbe stato Maradona a giocare con Platini… Assolutamente sì e ci siamo andati anche vicini, era il 1986 e il direttore generale del Napoli era Allodi. Ma quando un calciatore decide di chiudere la carriera deve farlo nella squadra con cui ha compiuto un lungo tragitto: è accaduto con me alla Juve e con Maradona al Napoli e spero accada con Messi al Barcellona».
La vostra rivalità era anche tra due poteri, quello storico della Juve e quello emergente del Napoli. «Quanto piace a voi l’idea della sfida… Maradona ha segnato una parte della mia vita perché siamo stati per alcuni anni due giocatori saliti sul tetto del mondo, così come è accaduto anni dopo a Cristiano Ronaldo e Messi. È stata una rivalità bellissima. Tra due squadre, ripeto. Non tra due calciatori e due uomini».
Il vostro primo incontro lo ricorda? «Benissimo. Eravamo a Buenos Aires nel 79, l’anno dopo la vittoria dell’Argentina al Mondiale, per la partita tra la nazionale di Diego, che aveva poco più di 18 anni, e la selezione del resto del mondo guidata dall’allenatore dell’Italia, Bearzot. Io ero reduce da due mesi di vacanza in Martinica, eppure a parte il piacere di partecipare a quell’evento giocammo bene e vincemmo per 2-1. Tra gli italiani c’erano Rossi, Causio e Tardelli, che marcò Maradona e venne espulso».
Che pensò di quel ragazzino? «Che se uno a 18 anni gioca nella nazionale campione del mondo vuol dire che è un fenomeno. E Diego aveva qualcosa di speciale. Non si fanno quattro Mondiali per caso, partecipando a due finali e vincendone una».
Vi sareste ritrovati avversari in serie A per lo scudetto. «Le partite a Napoli erano avvincenti, uno spettacolo fin dal giorno prima, con i tifosi che ci aspettavano in aeroporto e davanti all’albergo, poi quelli che incontravamo la domenica nel tragitto verso il San Paolo. Era il posto giusto per Maradona».
Perché? «Lui era grande e Napoli lo ha fatto ancor più grande perché gli dato l’orgoglio di rappresentare un popolo. Ed era così anche con l’Argentina, che andò a giocare – ricordatelo sempre – la partita contro l’Inghilterra ai Mondiali in Messico con il desiderio di vendicare la guerra per le Malvinas. Maradona ha scritto la storia del Napoli con gli scudetti e la Coppa Uefa, portando in alto una squadra che soltanto pochi mesi prima del suo arrivo lottava per non retrocedere. Bravo anche Ferlaino a costruire un grande club, prendendo tanti calciatori di valore, da Bagni a Careca».
Platini, invece? «Io sono nato in Francia e qui la pressione che genera il calcio non è quella di Napoli o dell’Argentina. Ecco perché Diego era perfetto per quelle due squadre e per quelle due tifoserie».
I numeri 10 di trent’anni fa non sono quelli di oggi, quel calcio era arte. «È speciale, il 10. Lo hanno portato i migliori, solo Crujff ne aveva un altro. È stato quello delle stelle che conquistavano i tifosi, ancor di più se il calciatore era Maradona, l’uomo che diventò subito un idolo per Napoli».
Diego chiuse la carriera a 37 anni e lei, quel giorno, c’era a Buenos Aires. «Non scesi in campo mentre Diego lo fece in Francia per un’iniziativa contro la droga che avevo promosso: ricordo che mise gli scarpini di Papin. Ma ricordo quel giorno alla Bombonera e il discorso di Diego».
Disse Maradona: «Io ho sbagliato e ho pagato, ma il pallone non si macchia». Ammise la droga e i suoi errori. Cosa sarebbe stato Diego senza la cocaina? «Non posso dirlo, non lo giudico perché non l’ho frequentato fuori dal campo. Lo ricordo come il re del calcio, amato dai suoi tifosi e rispettoso degli avversari».
Quale eredità lascia Maradona? «Quella di un calciatore immenso che resta nella storia per il suo gioco e il suo amore per il calcio. Amore infinito».
F. De Luca (Il Mattino)