È un silenzio dolente e in questo vuoto enorme che ora avvolge, sembra s’avverta persino, e fuor di retorica, il rumore delle lacrime. Quando Maurizio De Giovanni non era ancora il commissario Ricciardi, né s’allungava lungo i sentieri di Pizzofalcone, Diego Armando Maradona entrò al San Paolo, prese un pallone, disse «ciao, napolitani» e cominciò a scrivere una storia struggente, ricca di sé, che però non sarebbe rimasta rinchiusa dentro un pallone. E quella «vida loca», la sua, ora rimbalza in quei fotogrammi che prendono forma e lasciano dentro chiunque un senso di smarrimento.
La reazione di chi, da scrittore, deve anche descrivere quest’addio. «Non poteva che succedere ora, in questo anno disgraziato e maledetto. Non esagero se dico che siamo dinnanzi a una tragedia, perché Maradona non è stato il calcio per noi, ma molto, molto di più».
Si può dire la felicità, De Giovanni? «Certo che sì. E’ stato il più grande erogatore di gioia, nessuno ne ha mai dispensato quanto lui su questa città . Un santo patrono laico la cui assenza adesso si avverte nel modo in cui Napoli lo sta piangendo attraverso varie generazioni: perché Maradona non è stato solo di chi lo ha visto o vissuto dagli spalti ma appartiene ai figli e ai nipoti di quel tempo che ne hanno sentito parlare e, sedotti e affascinati, sono andati a cercarselo ora poi sui social. E’ stato il campione percepito a distanza di decenni da chi non ha mai avuto modo di gustarselo neanche per un secondo, eppure ha la sensazione di essere stato alla stadio, perché la narrazione è stata potente».
Come l’impatto, anche sociale, su Napoli. «La fine della sua avventura terrena non sottrarrà un grammo alla sua figura, che dominerà sempre Napoli e non semplicemente nei ricordi. Maradona è andato via trent’anni fa da Napoli ma non è mai sparito, è rimasto qua, è stato un compagno di viaggio inseparabile nella narrazione, un fascino che si è allungato e che è rimasto, inavvicinabile e inattaccabile».
E il più forte di tutti i tempi, a De Giovanni, sa di mistificazione. «Il depositario di un talento enorme e talmente sconfinato da andare oltre il calcio. Gli altri erano semplicemente umani, anche se fuoriclasse, lui è stato il dio assoluto. Dunque, non è mai rientrato tra gli esseri normali e non è comparabile né a chi l’ha preceduto, né a chi adesso viene descritto come un potenziale successore».
Una vita piena anche di errori. «Che ha pagato in prima persona, migliaia di volte. Penso a quando, Usa ‘94, uscì dal campo con una infermiera al campo, prima di essere trovato positivo alla cocaina. Ma Diego è stato vittima di una dipendenza e nessuno s’azzardi a considerarlo un dopato: quel vizio non alterava le proprie prestazioni, semmai le peggiorava. Lo accusavano di non essere un esempio, mentre si esaltavano figure dipinte come modelli. Poi si è visto chi erano i ladri. Maradona è stato generoso e sincero sino alla morte».
Napoli ha vissuto con lui un proprio riscatto. «La sua fragilità ha rappresentato un peso che si è portato addosso ed è stato solo suo. Ma Maradona è stato l’unico che da questa città non ha preso ma ha esclusivamente dato. E’ stato semmai preda di malfattori, e ce ne sono stati, ma non lo si riduca a un semplice simbolo: ci ha spiegato che avremmo potuto vincere e non solo nel calcio. Ci ha spalancato un mondo e ci ha dimostrato quali fossero le potenzialità di una terra accerchiata dai pregiudizi. Maradona ha spazzato via quella sensazione di impotenza ed ha tracciato un orizzonte: perciò dico giù le mani da Diego».
Napoli e Maradona erano fatti l’una per l’altro. «Lui non ha mai vinto prima di venire qua, né quando se n’è andato; Napoli non ha mai conquistato uno scudetto senza Diego. Penso che voglia dire qualcosa. Quello fu un perfetto incontro tra due elementi che ha dato vita a una storia fantastica. E’ stata una sublime congiunzione astrale che ci ha riempito. E penso che questa città fosse stata il terreno per far germogliare la sua inarrivabile classe».
A Giordano (CdS)