La loro storia è legata a doppio filo. L’allenatore, ma anche padre, e il calciatore, ma anche figlio. Gianni Di Marzio e Diego Armando Maradona hanno avuto da sempre un rapporto speciale. Gianni lo aveva scoperto in Argentina quando Diego era poco più di un ragazzino e a distanza di anni ha ancora il rimpianto di non averlo portato al Napoli già a quell’epoca. Lui, allenatore napoletano e anche del Napoli, avrebbe voluto far arrivare subito quel campione nella squadra della sua città.
E ora come ci si sente? «È come se fosse morto un figlio mio. Se ne è andato un pezzo della mia vita».
E che pezzo… «Con Diego il rapporto non era solo tecnico. Non era soltanto l’aver scoperto una leggenda del calcio. Era tutto».
Ci racconti del vostro rapporto. «Da ragazzino lo portavo a cena e a pranzo con me. Praticamente eravamo sempre insieme».
Ma lei come ha scoperto Diego Armando Maradona? «Non mi sono mai fatto i fatti miei e avevo sentito parlare di un grande campione argentino giovanissimo che Menotti non aveva convocato in nazionale con l’Argentina. E così mi iniziai a informare».
Poi? «La fortuna volle che il presidente della polisportiva calcio Argentinos Juniors dove giocava Diego, fosse italiano. Anzi, calabrese e tifoso del Catanzaro dove avevo allenato e vinto proprio io. Dopo la prima chiacchierata mi disse: Sono contento se viene con lei e Napoli. Insomma era fatta».
Ma lei il ragazzo lo aveva mai visto giocare? «Non ancora. E per questo il presidente della polisportiva argentina organizzò una partitella alla quale, però, Diego pensò bene di non presentarsi nemmeno. A quel punto corremmo a casa sua nelle favelas insieme al presidente del suo club».
Prime impressioni? «Lo vidi piccolino fisicamente. Rimasi quasi sconcertato da questo fisico, ma non ci diedi peso. Iniziai subito a parlargli di Napoli e del rapporto con la città».
Poi la firma? «Lui mi diceva che Sivori voleva portarlo alla Juve e io, per evitare che lo notassero altri osservatori, dopo appena mezzora della partita del giorno dopo. Lo feci firmare negli spogliatoi ma Ferlaino non lo volle prendere subito».
Quindi tutto saltato… «Diego poi andò al Boca e divenne un grande. Ma il rapporto tra noi è sempre stato strettissimo. Ogni anno gli mandavo a Buenos Aires la maglia numero 10 del Napoli».
Dopo quella volta in Argentina quando vi siete rivisti? «Prima ancora che diventasse un giocatore del Napoli, lo andai a trovare a Ginevra prima della rivincita del Mondiale del fecero la rivincita della finale del 1978 contro l’Olanda, il mondiale che Diego non aveva giocato. Quella volta, però, Kempes era infortunato e giocò lui».
Poi l’arrivo a Napoli. «Ero felicissimo. I veri artefici della sua venuta al Napoli furono Dino Celentano e Antonio Juliano. Juliano era stato un mio giocatore quando allenavo il Napoli e non smettevo mai di parlargli di questo fenomeno. Lui se ne era ricordato e lo portò in azzurro».
B Majorano (Il Mattino)