La voce di Ferlaino è rotta dalla commozione, come quella di tutti i napoletani, come quella di tutti quelli che lo hanno amato. Diego. Semplicemente Diego
Il primo ricordo di Diego in queste ore di dolore? «I giorni degli scudetti, la festa nello spogliatoio nell’87 e quella di tre anni dopo sulla nave, dove Ciro Ferrara fece salire un solo estraneo, Massimo Troisi. Dal mare osservavamo la città illuminata dai fuochi artificiali. Sono passati più di trent’anni ed è un giorno che mi sembra infinitamente più lontano».
Lei e Diego, il primo incontro? «A Barcellona, dove mi fiondai nella primavera dell’84 quando capii che c’era uno spiraglio per portarlo a Napoli perché aveva avuto problemi in quel grande club. Fu una trattativa durissima, la concludemmo nell’ultimo giorno utile per il tesseramento. Mi colpì la sua voglia di venire a giocare nel Napoli».
La sua squadra aveva rischiato la retrocessione negli ultimi due campionati, come le venne in mente di prendere Maradona? «Perché era l’unico che avrebbe potuto farci vincere. Io avevo ingaggiato Savoldi nove anni prima, pagando due miliardi di lire e facendo indignare i benpensanti. Poi tentai di acquistare Paolo Rossi ma lui non accettò. E allora, Diego, per provare a vincere il primo scudetto. L’uomo giusto e non soltanto perché era un grande talento ma perché intuii che aveva una mentalità vincente. E infatti con lui in campo ci sentimmo più forti di tutto e di tutti».
Fu il suo presidente e anche un amico? «Lui diceva, negli ultimi, che ero il suo carceriere… Pochi sanno che Diego, di nascosto, veniva a trovarmi a casa. Parlavamo di tutto, dal calcio alla famiglia, suggeriva tanti nomi di calciatori da acquistare. Avrebbe voluto prendere alcuni argentini per il Napoli, quella era la nazionale campione del mondo: io acquistai Careca e Alemao, due brasiliani con cui andò d’accordo e infatti insieme vinsero tanto».
Ferlaino carceriere perché non gli consentì di andare al Marsiglia dopo aver vinto la Coppa Uefa. «Non me lo sarei mai perdonato se avessi accettato quell’offerta che mi avrebbe tuttavia consentito di sistemare i conti della società che in quegli anni si era molto esposta per vincere. Tapie, il presidente del Marsiglia, mi offrì un assegno in bianco ma rifiutai perché Maradona era il Napoli. Un napoletano nato per caso in Argentina».
Qui il campione ha vinto ma l’uomo ha perso perché diventò schiavo della cocaina, di giri sbagliati: per questo, si disse, voleva andare via. «Maradona era un genio e i geni sono refrattari alle regole, ecco perché voleva andare via. I suoi problemi non cominciarono a Napoli ma in Argentina, durante le vacanze. Quando li scoprimmo, quei problemi, non ebbi mai la tentazione di cacciarlo ma sempre quella di aiutarlo. Maradona aveva poi un rapporto particolare con il suo fisico e la sua professione, perché da un lato c’erano quei problemi e dall’altro la voglia di giocare sempre: faceva arrivare a Napoli medici a spese sue per curarsi perché sentiva di essere un simbolo per i tifosi e non voleva deluderli».
Si è detto che è stato un simbolo sociale perché interpretò l’ansia di riscatto della città. «Maradona colse subito la voglia di vittoria di Napoli e del Napoli. Rivedevo pochi giorni fa il film di Kusturica in cui Diego descriveva la contrapposizione sociale tra Nord e Sud e coglievo nelle sue parole e nel suo sguardo ancora l’orgoglio per le vittorie sul campo della Juventus. Mi dispiace che altrove, in altri film e in altri libri, sia stata ricordata la malattia dell’uomo e non la grandezza del calciatore».
Vent’anni fa lei era stato al capezzale di Diego a Cuba. «Sì, ebbe un infarto e sembrò spacciato. Il cuore, ci dissero i medici, era malandato e alcuni gli diedero pochi giorni di vita. Ha lottato, come faceva in campo. È andato oltre tante crisi e tante operazioni, sembrava avesse superato anche questa operazione al cervello. I calciatori del Gimnasia, la squadra che allenava, lo aspettavano al campo. Adesso il dolore è immenso e condivido la proposta del sindaco de Magistris di intitolargli il San Paolo. È stata davvero questa la sua casa».
F De Luca (Il Mattino)