Così scrive Alberto Polverosi nel suo editoriale sul CdS
“È stato Johan Cruyff a inventare sia il concetto sia la parola per definirlo, el entorno, cioè l’ambiente, la piazza, l’idea che un contesto nel quale si muove una squadra di calcio arrivi a influenzarne il rendimento, arrivi a ripercuotersi sugli uomini. Quando a sipario calato su due delle sue partite più belle in carriera, giocate con la maglia numero 10 che in Nazionale fu di Rivera e Baggio, dice di non aver mai avuto un buon rapporto con la piazza di Napoli, Lorenzo Insigne dà l’idea di sapere bene dentro di sé che cosa l’entorno gli ha tolto in otto stagioni più uno spicchio, che cosa l’abbia frenato dal raggiungere la maturità solo all’alba dei trent’anni, adesso, in modo così clamorosamente tardivo per essere uno che non ha mai sbagliato uno stop in vita sua.
Contro chi? Questo è il punto. Contro i suoi. Contro la propria parte che in lui non s’è immedesimata. Perché Napoli è almeno un milione di posti diversi che i suoi abitanti sentono individualmente di rappresentare in modo esclusivo, ciascuno più Napoli di tutte le altre. Perché la radice di provincia di Lorenzo è stata spesso trattata con sufficienza. Perché Napoli è città che si riconosce più dai fischi che dagli applausi, come per primo sperimentò Antonio Juliano. Insigne ha reagito indisponendosi, impuntandosi, senza la solarità del sorriso di un Fabio Cannavaro, senza l’approccio ironico e disincantato di un Ciro Ferrara, senza avere i mezzi istruiti per reagire alla prigione sentimentale della ruffianeria, cara a una platea che si lega con meno fatica a uno straniero che viene, annusa, capisce e si dà. Quello di Insigne è invece un talento accigliato. Scriveva Francesco Durante ne I napoletani (Neri Pozza, 2011) che «da questo gran parlare che si fa nel mondo, deriva anche una certa superbia di Napoli». E due superbie non si incontrano. Come due bisogni d’amore non si sposano, si scontrano”.