Gli spalti sono una distesa di ombrelli. Nero, inframmezzato da qualche macchia di colore che si mescola al nero delle nubi gonfie di pioggia. Il cielo è una coltre che preme su Fuorigrotta. Una coltre che tuona. Il ragazzino è alle spalle della porta. Fa freddo, ma lui non lo sente. Il ciuffo nero incollato alla fronte, la tuta screziata dalle goccioline che turbinano intorno, seguendo il flusso del vento. Non ha riparo, quel ragazzino. Il suo riparo è dentro la mente. Dove scorre un film, nel pomeriggio in bianco e nero, a causa di quella coltre che annulla ogni colore, fotogramma dopo fotogramma che arriva dal prato verde, solo ancora nella fantasia di ottantamila sguardi. La sua mente tuona, al passo con la coltre che invade lo stadio. Come tuonano gli spalti. Il bambino ha le mani gelide. L’ emozione lo ghermisce. Scorre veloce, si fa clamore. Il piccolo calciatore, dai riccioli resi perlacei dal riflesso dell’ acquerugiola, conduce quel clamore per mano. Lo dirige, come farebbe un direttore d’orchestra. La sua bacchetta è il suo piede sinistro. Il podio dal quale chiama gli applausi, le urla, è quel prato. Che è suo. Un palcoscenico sul quale domina ogni cosa. Il ragazzino lo ha visto muoversi alla velocità di una luce accecante, che lo pervade ogni volta che tocca la palla. Forando la coltre. Il buio. Ha visto i suoi avversari inseguirlo, provare a fermarlo in ogni modo. Con ogni mezzo. Senza riuscirvi. Perchè il piccolo calciatore che disegna arabeschi sulle zolle fangose di quel prato, fatto di luci ed ombre, possiede il dono della scaltrezza. Ora, il ragazzino appena lo intravede. Dinanzi ad un muro di spalle. Lì, a qualche metro. Sente le grida del portiere, che muove la barriera con il suono della voce. Ne percepisce il sapore metallico della paura. Perchè il piccolo calciatore, che adesso scuote il capo piano, indicando all’arbitro qualcosa con un gesto della mano, nel suo piede sinistro nasconde l’, insidia che viene dal genio. Del calcio. Non si era mai visto uno così, prima. Il ragazzino ha le mani giunte, quasi sente le ginocchia posarsi sul cartellone pubblicitario che lo divide dal campo. Intorno a lui un fiorire di macchine fotografiche pronte. Il presagio nei loro flash, pronti ad illuminare il pomeriggio. Gli spalti ondeggiano, nel ribollire di ombrelli scossi nel vento. Che vengono improvvisamente rinchiusi. Per assistere al momento. Il ragazzino percepisce la sacralità di quell’ istante. Non ne comprende appieno lo svolgersi, chè tutto ha la durata di un baleno. Il salto della barriera, troppo troppo vicina, penserà poi. La sfera che sorvola teste in disperato torcersi verso l’alto. Il volo inutile del portiere che si frange sul palo, rotola dentro la rete, il palmo ancora disteso a cercare di fermare quella traiettoria diabolica. Il planare della sfera all’ incrocio dei pali. Il suo incastrarsi a perpendicolo. E poi il boato. Immane, folle. Il dispiegarsi della luce dei flash, un lenzuolo nel buio. Migliaia di ombrelli verso il cielo. Qualcuno trasportato dal vento, che vola verso il campo di gioco come un aquilone. Perso da chissà chi, nel delirio di un’estasi infinita. Il ragazzino si vede schizzare verso la bandierina del corner. E con lui altri come lui. Un signore in impermeabile cade, si rialza, fradicio d’ acqua, la bocca spalancata in un urlo muto mentre tutto intorno esplode la follia. Vede il piccolo calciatore schizzare in aria, sfigurato dall’ esultanza, il sorriso errante. Il ragazzino è il primo a raggiungerlo. Prima di quelli in azzurro, i compagni di squadra del piccolo calciatore, prima degli altri ragazzini, le tute screziate da gocce di pioggia come lui. Prima dell’anziano signore in impermeabile. Prima di tutti. Solo un momento prima. Lo stringe forte alla vita, il sudore del piccolo calciatore sotto i palmi, il suo odore. Il ragazzino grida forte: “Gol Diego, gol”! E sente la mano di Diego sulla testa. Allora scoppia a piangere. Irrefrenabilmente. Piangendo, lacrime di gioia. Quelle di tutto uno stadio.
a cura di Stefano Iaconis