Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Gino, Gino”

Gino caracolla per il prato. Il pallone gli transita tra i piedi, e lui, con un tocco leggero, lo fa scorrere sulla sua destra, sui piedi di Di Giacomo. Lo vede puntare Brugola, in ripiegamento difensivo, e poi andare verso l’area della Juve. Allora Gino Bertucco si arresta, le mani sui fianchi coperti dall’ elastico dei lunghi calzoncini che gli stanno un po’ larghi, il respiro corto. Si asciuga il sudore con la manica della maglia, infeltrita per gli umori stillati dal corpo.  Intorno a lui il muggire del pubblico assiepato in ogni dove, sugli spalti di uno stadio, il “Collana” stipato come un granaio in autunno. Gino si scherma con la mano, spingendo lo sguardo verso le balconate dei palazzi, che sorgono come sentinelle, dove chi non è riuscito ad entrare nello stadio è affacciato in quel giorno pieno di sole dell’Aprile del 1958. Una domenica. Non come tante. La domenica di un Napoli Juventus formidabile. Erano attesi trentamila spettatori. Ne arrivarono cinquantamila. E la partita è cominciata con un’ ora di ritardo. Concetto Lo Bello è sceso nello spogliatoio dove le squadre aspettavano. “Si gioca con la gente ai bordi del campo. Garantisco io”. Amadeo Amadei aveva sorriso. E poi aveva battuto le mani, incitando la squadra. Era stato irreale, pensa Gino, mentre piano avanza verso l’area avversaria. C’e’ un ragazzino, in pantaloncini corti e maglietta a righe, che strappa via la bandierina del corner. Gino glielo avrà visto fare fino a quel momento almeno dieci volte. Alle sue spalle un omone con i baffi spioventi, ogni volta gli rifila uno scappellotto, e rimette la bandierina a posto. Vede il presidente Lauro, l’ eterno fazzoletto bianco che spunta dal taschino, agitarsi appena al di là della linea di fondo campo. A due metri dal prato. Ora Gino è appena fuori l’area di rigore bianconera. È stato un pomeriggio indimenticabile. Con il Napoli in vantaggio tre volte, e tre volte raggiunto. Con il rumore dei trac che ha forato l’aria tersa ed immobile, l’ urlo dei tifosi riverberato da mille altre eco di quelli sparsi a bordo campo. Con il sole a fare da faro luminoso ad illuminare uno spettacolo mai visto prima. Vede il pallone, cuoio scuro con le legature in rilievo, salire verso l’alto. Vede Vinicio saltare a vuoto, e quel pallone schizzare verso sinistra. Dove c’ è lui, Gino Bertucco. Che mentre è assorto nei pensieri di quel film pomeridiano, vede la palla scendere verso di lui. Ogni stanchezza svanisce portata via dal soffio di un venticello improvviso che soffia sul Vomero. Gino Bertucco carica il piede, e quando il pallone gli arriva addosso, lo colpisce con tutta la forza che gli rimane dentro. Vede Mattrel distendersi, con il suo maglione nero che bruca l’erba del Collana. Vede la gente alle spalle della porta saltare in piedi. Sente il boato del Vomero. Non vede il pallone rotolare in rete. Ma lo intuisce. Un momento dopo Gino è sommerso dall’abbraccio dei suoi. Vede Lauro abbracciare qualcuno, il fazzoletto scompostamente fuori dal taschino. Per una volta. Il bambino sulle spalle dell’ omone, che ha divelto la bandierina. Come in un sogno viene trascinato a centrocampo. Come in un sogno vede il pallone rimbalzare qui e lì, mentre la gente urla, ed il muggito della folla è diventato il suono del mare di Mergellina quando si infrange sugli scogli nei giorni di tempesta. Poi vede Lo Bello con le mani sollevate al cielo, il suo triplice fischio che decreta la fine. E Gino Bertucco si ritova sulle spalle della gente che si riversa in mezzo al campo. Portato in trionfo. Mentre dappertutto il suono di mille petardi sale sulla collina del Vomero, e dai balconi, dalle gradinate, dovunque, il grido Napoli! Napoli! Risuona nelle orecchie di Gino Bertucco, da Buttapietra, una frazione in provincia di Verona. Che sorride, felice, i pugni sollevati. Mentre la gente gli stringe le mani. Gli sorride. E chiama: “Gino! Gino!

a cura di Stefano Iaconis

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