Christian Constantin: “Gattuso l’ho inventato io!”

Si pone anche lui la domanda più banale: «Ma perché voi italiani, che avete posti del genere, andate a fare le vacanze all’estero?». Poi Christian Constantin, architetto, presidente del Sion, si dà la risposta, altrettanto banale. «Io arrivo qui a Lampedusa con aereo e barca privati, quindi, epidemia o meno, tutto sommato non ho i problemi di altri». Ecco, bravo. In questo caso comunque non è una questione di costi ma solo di buon gusto. Constantin ha preso alloggio a “Il Gattopardo” perché è un gran bel luogo dove andare, vicino alla spiaggia di Cala Creta, e perché conosce i gestori da anni. «Il figlio, Marco Privitera, ha giocato nell’under 21 del Sion. E a me piace come stanno valorizzando tutto, qui intorno, aggiungendo ottimo cibo e altri piaceri alla posizione fantastica»

 

C’è chi arriva a Lampedusa in cerca della fine della terra e chi in cerca di salvezza. I più vogliono mare e sole. Constantin chiede pure una fuga momentanea dalla pressione del calcio che cambia tutto perché non cambi un bel niente, a proposito. Interessante parlarne con lui, ex portiere, spesso nemico pubblico, proprietario dal 2003 di una squadra svizzera che è riuscita a farsi escludere dall’Europa League in un circolo che più indulgente con i propri membri non potrebbe essere, perlomeno con i membri di prestigio. E sgranocchiatore seriale di allenatori, allenatore lui stesso alla bisogna, castigatore di opinionisti sgraditi: nel 2017 si prese 14 mesi di squalifica per aver colpito Rolf Fringer, già ct della Svizzera. Mentre vuoi sentire che cosa abbia da dire in sua difesa, lui va all’attacco.

Constantin, lei era contrario al calcio sotto pandemia. Adesso che i campionati ripartono ovunque e in Svizzera si riprende nel fine settimana è più tranquillo? «Resta tutto complicato. Non ci sono gli spettatori, non c’è atmosfera, non c’è la festa che dovrebbe sempre accompagnare qualsiasi evento spettacolare. D’altra parte restano a casa anche gli ultras e non hai problemi di sicurezza. L’anomalia si sente, inutile negarlo. Ovviamente dobbiamo inventare nuove emozioni con quello che abbiamo».

E qualche idea al riguardo lei ce l’ha di sicuro. «Nel nostro stadio abbiamo costruito un palco. Inviteremo ad esibirsi artisti, uomini di spettacolo. Per la prima in casa sto pensando ad Andrea Bocelli. Così i pochi spettatori che potremo ospitare, in Svizzera seimila al massimo, potranno usufruire di qualcosa di più di una partita di calcio. Sarà tutto ipercontrollato: percorsi sicuri dai parcheggi alle tribune, i punti di ristoro lungo la strada. Offriremo uno spettacolo articolato in piena tranquillità».

Si è pentito di aver licenziato quei giocatori che non hanno accettato il taglio dell’ingaggio?
«Non c’era scelta. Se non l’avessi fatto avrei mandato in difficoltà il club. La perdita dei diritti televisivi è stata un’autentica batosta. Quei pochi avrebbero influito negativamente sugli altri. E’ bastato rinunciare a otto-nove persone per mantenere la squadra compatta, intorno a una filosofia accettata da tutti».

Andrea Agnelli ha avanzato previsioni fosche sul futuro del calcio europeo. Perdite miliardarie, squadre in bilico. Secondo lei il calcio sopravviverà alla pandemia?
«Ma certo, perché fa parte delle nostre vite. Supereremo questo periodo».

Come mai così ottimista, proprio lei che con l’Uefa ha sempre avuto rapporti piuttosto tesi? «Il calcio si è dovuto allineare alle decisioni delle autorità politiche dei vari Paesi: siamo stati tutti colti di sorpresa dal virus. Il vero problema con l’Uefa è un altro. Ovviamente non sanzionerà mai i grandi club. Ne abbiamo avuto dimostrazione. Perché sono i grandi club a far lievitare i diritti televisivi. Molto più facile prendersela con squadre di dimensioni inferiori come la nostra. Sapete che cosa potrebbe portare davvero alla morte del calcio? Questa trovata di rendere sempre più elitaria la partecipazione alle coppe, l’idea di varare tornei esclusivi. Il calcio è anche la passione delle piccole squadre, l’espansione dello show a zone sempre più vaste del pianeta. Ma se davvero l’Uefa insisterà su questa Superlega decreterà anche la sua fine. Le altre squadre si metteranno in proprio, fonderanno nuove organizzazioni. E sarà la torre di Babele. Di sicuro però il virus sta modificando molti di questi scenari».

Nel mondo del calcio la considerano un eccentrico. Lei come si vede?
«I presidenti sono uno stereotipo. Molti sono anche stipendiati. Io guido il club di una cittàdi 30.000 abitanti che sta dietro la Val d’Aosta. E sono uno di quelli che ancora i soldi li tirano fuori. Se mi comportassi come tutti gli altri scomparirei».

Però più di 40 allenatori in 17 anni sono eccessivi, su. «E’ perché sono un appassionato. Gli allenatori sono tutti bravi a vendersi. Ma somigliano ai meloni, devi aprirli per capire se sono buoni. Arrivano, ti dicono che con tre o quattro giocatori saranno a posto, a metà stagione tornano e raccontano che con quella rosa non possono mantenere le promesse. Qualcuno si dimette, addirittura. A un certo punto ho deciso di allenare io stesso e ho messo insieme due sconfitte, due pari e sedici vittorie».

Bene, allora aboliamo direttamente gli allenatori. «Ma no, con loro basta parlare a lungo e con calma. Anche perché dopo essersene andati dicono tutti di essere stati benissimo a Sion e di essere cresciuti. Per esempio, l’idea di trasformare Rino Gattuso in tecnico è stata mia. Lui ha un grande cuore, un entusiasmo enorme e una parola sola. Il profilo perfetto per una squadra che abbia le stesse caratteristiche. E ha fatto sempre le mosse giuste, passando da Palermo, attraverso la Primavera del Milan, la prima squadra, quindi mettendosi in discussione fino al punto di sostituire un’icona come Ancelotti a Napoli. Io credo che tra sette-otto anni sarà uno dei punti di riferimento a livello internazionale».

E da Fabio Grosso, il suo allenatore di questa stagione, che cosa si aspetta? «Ho sempre amato il vostro calcio, un affascinante mélange di scuole. Ne ho avuti tanti di allenatori italiani, a cominciare da Albertino Bigon. Grosso mi ha colpito sin da quando era calciatore: un numero dieci che capisce di doversi riposizionare terzino se vuole avere un futuro e poi infila quel gol contro la Germania. Sono disposto a scommettere sul futuro di uno così».

Ma lei era tanto assertivo anche quando giocava? I compagni di squadra probabilmente la detestavano. «La mia prima partita importante fu contro il Milan di Rivera. Affrontavo gente che toccava il pallone come pochissimi al mondo. Ho imparato in quelle situazioni che l’unico modo di uscirne interi era creare uno spirito di squadra che compensasse per quanto possibile la differenza di talento. Serviva qualcuno che ci mettesse personalità e desse l’esempio. Quel qualcuno ero io. Sì, forse mi sono attirato insulti all’epoca».

Ha saputo che De Laurentiis è andato alla riunione di Lega con i sintomi dell’infezione? Lei che ha sempre voglia di uscire dalle righe lo avrebbe fatto? «Sono eccentrico, ma non fino a questo punto». 

Fonte: CdS

 

 

 

 

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