Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Capitano, mio capitano”

La magica penna di Gianni Brera, sempre capace di evocare immagini, lo descriveva cosi: “Il Napoli di Vinicio si fonda sulla regia di Juliano, al quale i devoti gregari portano palla con assoluta diligenza. Il capitano azzurro fornisce, anche se a flebile ritmo, prestazioni stupende”. Fu il capitano, in un’era fatta di capitani. Quelli con la maglia cucita addosso. La maglia del club. Eterna. In una unione indissolubile, perfino dal tempo. Rivera, il Milan, Mazzola, l’Inter. Juliano, il Napoli. Accade ancora oggi, se si pensa a loro. E si ritrovarono tutti e tre in nazionale. A Messico ’70, in quello che fu il mondiale più affascinante nel ricordo di una intera nazione. Quello di Italia Germania 4 a 3. Che Juliano guardò dalla panchina. Una foto lo immortala mentre, di esterno destro, segna il gol che poteva essere quello più’ importante tra tutti i ventisei che realizzò con la maglia azzurra. In un pomeriggio di aprile del ’75. Al Comunale di Torino, pareggiando il gol di Gori. Nella partita di core ‘ngrato Altafini. Nell’anno nel quale il Napoli di Vinicio sfiorò un’ impresa titanica. Non segnava tanto, Antonio. E quando lo faceva non si dimenava in esultanze fantasiose. Restava lì, immobile a braccia sollevate. Ed i compagni gli si stringevano intorno. Talvolta sollevandolo. Come fosse un totem. Un simbolo. Ed era un simbolo. Di una città che in quel tempo, cercava un riscatto antico dentro una squadra di calcio. Erano i tempi del boom economico la cui eco sfiorava con il suo invitante sussurro il meridione. I tempi nei quali la lotta al potere calcistico espresso dal nord, che si mescolava a quello sociale ed economico, partoriva miti. Ai quali Juliano si affiancava. Tempi nei quali, appunto, una convocazione in nazionale di un calciatore del Napoli, e figlio di Napoli, inorgogliva un popolo. Sorrideva spesso. Nelle interviste. Sornione ed ironico. Con un ghigno da “guappo” e l’aria strafottente che il ciuffo nero gli conferiva. La parlata morbida, nobiliare. Quieta. Ipnotica. Eguale alle sue movenze sul campo da gioco. Dove danzava lento, palla al piede. Senza fronzoli o ghirigori. Essenziale, quasi senza il tocco della fantasia. Poco partenopeo, là dove esserlo, sul prato esprime sensazioni legate ad una fantasia sfrenata. Il sui passaggio era luce notturna di una luna alta sul golfo. Quella che illumina un vicolo dei quartieri sul fondo di una salita impervia. Mai splendente. Mai accecante. Indicava. Si materializzava per inondare con la sua bellezza appena un tratto. Filtrava tra mille nuvole trovando il pertugio. Posandosi sui piedi dei suoi compagni. Juliano fu l’ultimo baluardo della napoletanità calcistica. Il suo mito sopravvive. Nella mente di chi ricorda. La meraviglia Lo stupore. Di un calcio che abita la leggenda.

a cura di Stefano Iaconis

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