E’ con Benitez che tra l’Olimpico di Roma e Doha, Napoli si riempie di sé, d’un ruolo autorevole che in quell’istante decolla a livello europeo. In ventiquattro mesi, ma soprattutto nei primi sei, c’è un’evoluzione «antropologica» del calcio, un mutamento genetico, una progettualità che stasera, a Roma, in Napoli-Juventus, concede ancora echi di sé e che Benitez, dalla Cina, in esclusiva per il Corriere dello Sport-Stadio, attraversa con tenerezza e un percepibile filo di malinconia.
Come se la passa, Rafa? «Sono in quarantena ma riesco a seguire gli allenamenti. Aspettiamo le decisioni del Governo, prima di ricominciare a giocare e provare ad essere protagonista in un campionato difficile, nel quale però vorremmo far bene».
L’ultimo trionfo del Napoli è in quel dicembre 2014, con Benitez in panchina. «Il penultimo a Roma, in finale di Coppa Italia, con la Fiorentina, in una notte senza gioia, perché sapemmo ciò che era successo prima della partita e venimmo informati dopo delle difficili condizioni di Ciro Esposito, che poi sarebbe morto un mese dopo. Ma ho impresso l’accoglienza a Napoli, al rientro, i poliziotti che sul treno ci chiedevano un selfie o una foto, quella necessità di essere felici che cogliemmo negli sguardi».
Doha fu «altro» per voi… «La Supercoppa dà una dimensione più ampia e poi quel successo lo celebrammo su un palcoscenico internazionale. Dal punto di vista tecnico, penso che giocammo una gran partita contro la Fiorentina, all’Olimpico; ma da quello mediatico e anche ambientale, visto che eravamo in prossimità del Natale, fu più fashion il trionfo in Qatar, che ebbe anche modo di regalare il pathos dei rigori. Insomma, ci furono tutti gli ingredienti per arricchire quella notte e poi, non devo certo ricordarlo io, per i napoletani battere la Juventus dà un sapore particolare».
E questa finale, invece, come sarà? «Sarri e Gattuso sanno come prepararla, ognuno seguendo il proprio istinto e le rispettive filosofie. Ci vuole cuore, vero, ma servirà soprattutto tanta testa, per riuscire a concedersi l’equilibrio necessario per non smarrirsi. La voglia di vincere ce l’hanno entrambe e anche le motivazioni ed allora bisogna indugiare sui particolari».
Cristiano Ronaldo o Mertens, Dybala o Insigne? «Le partite non sono sfide personali, però è chiaro che chi ha talento ha maggior possibilità di occupare la scena e di imprimere una svolta. Ci sono personaggi di enorme qualità ovunque e fatico a preferirne uno all’altro: se posso sbilanciarmi, e che nessuno si arrabbi, io spero che sia azzurro l’uomo del match».
Il Napoli di oggi è ancora figlio di quello che lei costruì tra l’estate del 2013 e il 2014. «Ho trovato un club che con Mazzarri aveva fatto già molto bene e che però voleva avere un respiro ancora più internazionale. Fui assecondato da Aurelio De Laurentiis, con il quale il rapporto è rimasto di enorme affetto, e fu altrettanto bravo Bigon, il direttore sportivo. Prendemmo subito Mertens, che era stato già scelto da Riccardo e mi venne proposto immediatamente, poi acquistammo Callejon, Higuain, Albiol, Reina e Zapata… Sarebbero arrivati più tardi Koulibaly, Ghoulam, Jorginho».
Scelga un solo «colpo» tra i tanti di quel biennio. «Impossibile. Perché Callejon, che pagammo poco meno di nove milioni, ha offerto sette anni di rendimento impressionante. Un anno dopo ci arrivò una proposta da 25 milioni, e Aurelio disse di no. In termini economici, vista la quotazione raggiunta da Koulibaly, potrebbe essere lui l’affare indimenticabile: ma anche el pipita, che ha prodotto gol e utili; o Mertens, che è diventato il re del gol. Mi spiace che la sorte non sia stata amica di Ghoulam: non c’erano tanti esterni difensivi forti di lui, quando si è infortunato».
Andiamo a memoria: football è bugia, amava dire. «Ma anche sin prina, sin pausa. Però football è bugia…»
E dopo un Napoli-Juventus, con gol di Caceres in fuorigioco millimetrico, le venne una frase celebra: «Ci può stare». «Per allentare la tensione, meglio un pizzico di humor inglese».
La vedrà, Rafa? «Sarà piena notte ma non posso farne a meno. Ho appena fatto riparare il televisore, sono riuscito a guardare anche le immagini salienti delle semifinali. E poi per me questo è anche studio. Però, in questo caso, è sentimento».
Con De Laurentiis si sente ancora… «Siamo rimasti in contatto e quando capita di parlarsi, si avverte reciproca stima. All’epoca, com’è inevitabile che sia, ci furono divergenza, ma niente di clamoroso o di irrispettoso. Abbiamo avuto modo di chiacchierare in gennaio, mi pare, perché si poteva profilare uno scambio tra Lozano e Carrasco; e poi per il suo compleanno, recentemente, quando è stato piacevole confessare i sentimenti che l’uno prova nei confronti dell’altro».
Una finale è più tattica o più talento? «L’una e l’altra, perché l’organizzazione non può essere ridimensionata. Certo che poi la svolta può arrivare persino da una situazione che, alla vigilia, possa sembrarti apparentemente irrilevante. Ma l’ispirazione del momento, l’intelligenza, la fantasia, possono arrivare ovunque. E’ una questione di cervello e di psicologia, perché bisogna anche essere bravi nel dominare l’ansia, il nemico più pericoloso».
La sua Italia è ampia e ci sono vari capitoli, diretti o indiretti….Le finali con il Milan di Ancelotti, la sua esperienza all’Inter, la considerazione che le è stata più volte espressa da vari club. «Ma Napoli è stata casa mia per due anni. L’ho girata tutta, ne ho ammirato la sua storia, la sua cultura, i suoi tesori, la sua sensibilità. E’ una città che ti entra dentro e non ti lascia più. E l’Italia mi è cara, vero».
Viene quasi da chiederle: ci tornerà, un giorno? «Ho un contratto di un altro anno e mezzo con il Dalian e sono contento di vivere questa esperienza. Mi spiace che proprio ora Hamsik abbia subito un lieve infortunio, ma per il momento non c’è campionato e quindi non abbiamo fretta. Però ci manca il calcio. Ma non possiamo fare altro che attendere le decisioni del Governo».
Antonio Giordano (Cds)