Lara Natale, dal Cotugno al San Paolo: “Ringrazio Cannavaro per le mascherine donate”

Chi c’era ha applaudito. Gli altri lo hanno fatto da casa, I loro camici bianchi, per iniziativa della Lega di Serie A, erano nel cerchio di centrocampo. In quello del San Paolo, sabato sera, c’era Lara Natale, 47 anni, direttrice del Provveditorato dell’Azienda ospedaliera dei Colli, quella del Cotugno. «Un’amministrativa – dice – la quarta linea. Ma ci siamo stati anche noi a combattere questa battaglia. Sono quella che in questi mesi ha dovuto comprare le mascherine per i medici e gli infermieri, i ventilatori per le terapie intensive, cercando davvero in ogni parte del mondo ciò che occorreva in momenti drammatici. Per questo, per tutti quelli che hanno lavorato duramente anche negli uffici, è stato bello che il direttore generale abbia voluto ringraziare anche noi». 
Ne parla ancora con grande emozione. «È stata una serata speciale. Il San Paolo è già di per sé una esperienza incredibile. Poi attraversare il manto erboso è un’emozione nell’emozione».
Prima volta allo stadio? «No, c’ero già stata sei anni fa, mi pare un Napoli-Roma. Una sera che arrivò in tribuna anche Maradona. Un clima incredibile, me lo ritrovai quasi accanto. Ma sabato, con lo stadio vuoto, quel clima di commozione e di partecipazione, è stata un’altra storia»
Lei, a un certo punto, si è portata una mano sul cuore. «Sì, ho pensato a Maurizio, un uomo di 47 anni che è arrivato al Cotugno ammalato di Covid-19. Non aveva patologie pregresse ed è stato molto male, fino a morire. Tutte le morti sono dolorose ma quella di un uomo sano, senza una vera spiegazione, ha scioccato tutti. Io in quei giorni ho mantenuto un dialogo con la moglie. I familiari dei ricoverati erano angosciati, non potevano comunicare né vedere i loro cari. Volevano notizie e ho parlato spesso con lei, fino alla terribile morte. Ho un ricordo nitido di questa donna addolorata ma fortissima, piena di dignità e coraggio. Così sabato sera ho pensato a loro»
Giornate terribili, quelle di marzo e aprile. Che ricordo porta con sé? «Uno tsunami. Ricordo nitidamente le sirene delle ambulanze. Un allarme continuo, inarrestabile. Il mio ufficio è a pochi passi dall’ingresso del Cotugno e sentivo continuamente questo suono. Ogni giorno mi chiedevo quando sarebbe arrivato il picco dei contagi. Salivamo sempre di più, dovevamo trovare nuovo spazio, nuovi padiglioni. E non si fermava mai. Ho capito proprio dalle sirene più rare che a un certo punto avevamo superato la fase critica. Non sono medico né infermiere, sono un avvocato che si occupa degli acquisti ma ho sentito tutta l’emozione della battaglia per la vita».
Il momento più difficile? «Il primo problema è stato quello delle mascherine e dei dispositivi di protezione individuale. Io avevo la responsabilità di rifornire i reparti, ne va della sicurezza degli operatori. Abbiamo un nostro fornitore e a gennaio, quando si è cominciato a parlare del virus, abbiamo rinforzato gli ordini. Ma le mascherine non bastavano mai. Io ordinavo al fornitore e il fornitore non le aveva. Faticava anche lui a procurarsele. Così ho compiuto un atto di forza: sono andata a comprarle in Cina, chiedendo aiuto anche a Fabio Cannavaro, che era lì, ed è stato straordinario. Ce ne ha donate 15mila ma ci ha anche messo in contatto con le aziende. Per il fuso orario ho lavorato di notte e peraltro pagando in anticipo, cosa che la pubblica amministrazione non può fare». 
Ha avuto mai paura di mettere la firma? Paura della Corte dei Conti, della magistratura? «Paura non è la parola giusta. Ho lavorato in emergenza per risolvere problemi di vita e di morte. Ho messo firme pesantissime su acquisti diretti senza tempi tecnici per le gare. Le procedure sono state eccezionali. A volte neppure l’acquisto diretto era sufficientemente veloce. Sono consapevole di dover dare conto delle mie azioni, delle spese fatte, dei provvedimenti assunti. Sono pronta a farlo. Ma in quei momenti bisogna agire. Quando lavori in un ospedale, prima vengono i pazienti, poi tutto il resto. Per fortuna, sono stata sostenuta dal mio direttore generale, e da un ufficio di collaboratori straordinario». 
Proprio nell’ufficio non è mancata la tensione quando è arrivato il virus. «Una delle mie impiegate si è contagiata. Abbiamo temuto per tutti noi, che siamo stati settimane gomito a gomito. Per fortuna abbiamo sempre usato tutte le precauzioni: mascherina, distanze. Così nessun altro si è ammalato». 
Poi la bufera è passata, possiamo dirlo? Come si torna alla normalità? «Sicuramente è passata perché oggi abbiamo solo 4 pazienti ospedalizzati e non c’è più emergenza. La normalità è ritrovare i problemi che si erano accantonati nel tempo. Noi abbiamo quasi fermato tutto per dedicarci al Covid-19. Ma poi ci sono anche altre patologie, altre necessità che ora si ripresentano tutte insieme. Poi non abbandoniamo il Cotugno: stiamo ultimando la procedura per allestirvi una sala operatoria in modo che se un paziente ha bisogno di un intervento lo fa dentro la struttura».
Paura della seconda ondata? La affronteremmo meglio dopo l’esperienza della prima? «Siamo abbastanza tranquilli. Dico abbastanza perché lo eravamo anche a gennaio. Non ci faceva paura il virus in sé ma siamo stati travolti dalla quantità di pazienti che arrivavano tutti assieme. Il problema è quello. Non sappiamo che cosa può arrivare. Siamo preparati a quello che ci aspettiamo. Oggi possiamo affrontare una ondata come la prima. Ma se arriva di più chi può dire come reagiremo?».
Cosa le ha insegnato questa esperienza? «Lavoro da molti anni con la sanità. Conosco quella pubblica e quella privata. Grande rispetto per la sanità privata ma lì tutto è budget. La sanità pubblica, invece, è persona. Quando c’è una emergenza, chi ti salva la vita è la sanità pubblica, per la quale non sei mai una spesa ma un essere umano da curare. A qualunque costo. Ricordiamolo sempre».

Fonte: Il Mattino

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