Ancora oggi, a settantun anni, Aurelio De Laurentiis abbandona virtualmente ogni giorno gli uffici della Lega salendo sullo scooter del primo che passa e, senza casco, si fa accompagnare in stazione mandando platealmente tutti a quel paese. «Sono molto incazzoso, ma dopo cinque minuti via, tutto finito, come se nulla fosse accaduto, e torno a essere dolce e affettuoso. Chi non mi conosce si stranisce. L’incazzatura-lampo mi ha salvato la vita, se così non fosse invece di un solo infarto ne avrei avuti dieci, forse sarei già morto».
Il calcio de «i prenditori». Sabato sono rientrato tardi in hotel – gli dico – e ho acceso su Raiuno proprio mentre stavano trasmettendo lo sketch del balletto imposto da suo zio Dino ad Alberto Sordi, straordinaria la somiglianza fisica tra voi, e lo stesso timbro di voce, poi. «Forte, lo stavo vedendo anch’io. Negli ultimi anni in America avevamo entrambi la barba e la gente ci scambiava per fratelli».
Ma vi ha fatto vivere tre stagioni indimenticabili. «È diventato il deus ex machina, ma anche nel calcio vale la regola del cinema dove per fare un buon film sono necessari un ottimo regista e un ottimo produttore, sono i genitori dell’opera dell’ingegno. Naturale che l’imprenditore dia delle indicazioni e che gli sia riconosciuta una parte del merito nel successo, non solo la colpa nella sconfitta. Chi ha preso Cavani? Il sottoscritto. E Mazzarri? Il sottoscritto. E Benitez? Sempre il sottoscritto. E Higuaìn? E Sarri? Quando lo scelsi tappezzarono la città di striscioni contro di me».
Ha dimenticato Ancelotti. «Carlo mi ricordava mio padre».
Lui nel calcio ha vinto come nessun altro. Stiamo parlando di un valore tecnico elevatissimo. «Scelsi la sua serenità, la tranquillità, la sua piacevole vicinanza. Mio padre era un filosofo, un uomo dolcissimo. Come Carlo. Ma prendendo lui, non so se feci la cosa più giusta per il Napoli. Dopo la prima stagione, potendo ricorrere alla clausola rescissoria contenuta nel contratto, avrei dovuto dirgli “Carlo, per me non sei fatto per il tipo di calcio che vogliono a Napoli, conserviamo la grande amicizia, il calcio a Napoli è un’altra cosa. Ti ho fatto conoscere una città che adesso ami spassionatamente e che ti ha sorpreso, meglio finirla qui”».
Gattuso è più compatibile con la realtà calcistica napoletana? «L’avevo chiamato anni fa insieme a Totti, avevo pensato a un film con loro due. Questa la sapevi?».
No. «Rino me l’ha ricordato l’altra sera dopo la partita con l’Inter. Ci eravamo rivisti al compleanno di Ancelotti, da Mammà, a Capri. Una tavolata di quaranta metri, Carlo aveva invitato il mondo, amici, ex compagni, sembrava un matrimonio, io e Carlo ai lati. Rino era seduto vicino a lui. Me l’ero immaginato diverso, ho scoperto un grande conversatore, molto presente a se stesso e in grado di affrontare tutti i temi possibili. Ci siamo intrattenuti a parlare per le tre ore della serata. Dopo il disguido del ritiro-non-ritiro gli ho telefonato e gli ho detto: “Rino, stai calmo, non prendere nessuna decisione se ti chiama qualcuno, stai fermo”. La sera della partita di Champions, dove peraltro abbiamo vinto, ho invitato Carlo a cena per spiegargli che avevo deciso di cambiare, anche per conservare la grande amicizia tra noi… Napoli è la parte migliore della mia vita. Io amo due sole città, i miei due posti, non esiste un altrove, Napoli e Los Angeles. Per stare vicino alla squadra ho appena deciso di affittare una villa di Capri e di trasferirvi gli uffici della Filmauro, del cinema e del calcio».
Torniamo a Gattuso. «La squadra aveva dimenticato il 4-3-3 sarriano, a Rino ho chiesto la riverginazione di quel modulo, anticipandogli che lo scotto da pagare sarebbero state tre, quattro sconfitte di fila. Ne ha perse di meno. Carlo, come mio padre, era l’ambasciatore, io e Rino siamo molto simili, due guerrieri, due che non le mandano a dire, due condottieri».
Quindi, confermato? «Ma che domanda è? Gli avevo fatto un contratto di un anno e mezzo nel quale era contemplata la via di fuga per entrambi. Non abbiamo avuto bisogno di ricorrervi. Se facciamo bene in coppa Italia e in Champions e recuperiamo qualche posizione in campionato, gli do appuntamento a inizio agosto a Capri dove potremmo parlare di un allungamento di tre, quattro stagioni. Carlo Verdone è con me da vent’anni, in esclusiva. Tra persone che si stimano i contratti hanno un valore relativo, contano le motivazioni, gli stimoli, ognuno deve essere libero di decidere se proseguire o meno».
E Callejòn? «A settembre, o forse era ottobre, non ricordo bene, ci siamo parlati e gli ho chiarito le nostre intenzioni, devo aver ritoccato il contratto di cento, duecentomila euro. Il suo manager non ci ha più fatto sapere nulla. Basta. Lui le condizioni le conosce».
Koulibaly e Fabian rappresentano delle urgenze? «Fabian ha ancora tre anni, Koulibaly due. Dov’è il problema? Se si presentassero il City, o lo United, o il Psg con 100 milioni, ci penserei ed è probabile che partirebbero, sempre se la loro volontà fosse quella di andarsene. Un’offerta di sessanta non la prendo nemmeno in considerazione. Io sono solido, se avessi voluto vincere lo scudetto a ogni costo oggi mi ritroverei con tre, quattrocento milioni di debiti. Mi guardo intorno e vedo società a -500, – 600 milioni, meno un miliardo. Io non devo un cazzo a nessuno».
Ha mai pensato di vendere il Napoli? «Mai. Ho ricevuto tre offerte, una da 700 milioni, una da 800 e l’altroieri si è palesato uno che però non ha fatto cifre. Il Napoli rappresenta sedici anni della mia vita, nel 2004 produssi il mio ultimo film americano, Sky Captain and the World of Tomorrow, con Jude Law, Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie e Laurence Olivier, che ricreammo al computer, non fu un grande successo ma guadagnai 90 milioni di dollari. Se avessi proseguito oggi mi ritroverei con 3, 4 billions. Ho messo il calcio davanti a tutto. Certo, mi sono infilato in un mondo dominato da prenditori più che da imprenditori».
Si riferisce alla Lega calcio? «Alla Lega, al sistema Paese. Decine di riunioni per non decidere nulla. Ho detto a Paolo (Dal Pino, ndr): “Visto che la pandemia ci ha fatto scoprire le video-assemblee in conference call, mi spieghi perché io non dovrei confrontarmi direttamente con gli azionisti, con chi i soldi ce li mette? Meno incontri, ma più efficaci e risolutivi. Perché posso parlare con Agnelli e non con gli altri? Perché posso discutere con Lotito e non con gli altri? Perché Zhang non torna dalla Cina? Ci ritroviamo continuamente con gente che moltiplica i rinvii perché deve riferire all’azionista: ma al di là di questo, manca in generale una visione industriale del calcio. Si pensa soltanto ai diritti televisivi».
Uno dei nervi ancora scoperti. «Murdoch ha sistemato i tre figli e se n’è andato. La domanda è: quanto può interessare a un colosso come Comcast il calcio italiano? Che valore gli dà? L’ex ad di Sky, Zappia, ha commesso un errore grossolano inglobando Mediaset Premium senza conservarne la denominazione. Pensava di poter trasferire un milione e 700mila abbonati da un broadcaster all’altro e invece si è ritrovato con 300mila card in più e la proliferazione dei pirati, i tifosi avevano visto sparire Premium e non sapevano che fine avesse fatto. Un grande errore di comunicazione. L’uscita di Tom Mockridge è stata esiziale, parlo di un manager che in seguito è stato per sei anni, fino all’aprile 2019, a capo di una società che fattura 5,5 billions di sterline l’anno, Virgin Media. Noi dovremmo cominciare a produrre le partite indipendentemente e autonomamente e licenziarle a Netflix, Amazon, Tim, Disney Plus, Sky eccetera, lasciando loro il 5 per cento della raccolta e mettendo gli abbonamenti a 300 euro l’anno. Quello delle pay è diventato un mondo di piagnoni che non hanno una visione del futuro. Io a 71 anni mi sento ancora giovanissimo perché sono proiettato verso un mondo di contenuti in continua trasformazione. Proiettato ma anche preoccupato: la pandemia ha mostrato il vero volto del Paese, i problemi latenti che abbiamo finto di non vedere munendoci di occhiali con lenti troppo spesse. È uscita l’Italia dormiente, un Paese passivo che ha vissuto la ricostruzione del dopoguerra, il boom economico degli anni 60, la stagione del terrorismo nei 70, l’edonismo craxiano degli 80, il paraculismo berlusconiano dei 90 e non farmi parlare degli ultimi tre governi. Si è trascurata scientemente la “res publica”, che appartiene a noi cittadini, a noi italiani. Bisognerebbe andare subito al voto, modificare la Costituzione, creare una repubblica presidenziale, ristrutturare la burocrazia dei ritardi che favorisce i politici attuali, demolire il partito del no sistematico. È necessario fondare tutto sull’economia, che cos’è la politica senza l’economia? Ho grande rispetto di Giuseppe Conte, 60 sessantesimi al liceo, 110 cum laude all’Università, autore di numerosi trattati, ma un teorico. Servirebbe Draghi, un uomo di concretezza, competenza e solidi rapporti internazionali».
Riferendoci a quelle Tv, servirebbero riforme anche nel calcio. «Certamente, perché i 37 milioni di tifosi potrebbero costituire il partito più importante d’Italia. Gravina è un grand’uomo, coraggioso, acculturato, ha una coscienza cristallina, è un dirigente responsabile e in grado di avviare la riforma del calcio. La C deve diventare semipro come la D, non è più sostenibile, in C si perdono milioni che finiscono nella spazzatura. Le dieci puntate di The Last Dance ci hanno mostrato il valore del sistema Nba che produce spettacolo, passione, fidelizzazione. E ricchezza. Sessantacinquemila spettatori in un palazzetto, ve lo immaginate? Un’energia indescrivibile. Perché allora non istituire un serie Élite del calcio con – massimo – dieci, dodici squadre? Con garanzie bancarie inattaccabili, senza promozioni, né retrocessioni, per dare potenza e sviluppo alle partecipanti. Calendario più snello, eventi di alto livello, azzeramento delle partite prive di appeal. Ci si dimentica spesso che nel ‘96, sotto il governo Prodi, Veltroni trasformò i club in società per azioni con scopo di lucro, il Fair Play Finanziario di Platini ha fatto il resto interessando solo pochissime realtà. La Lega calcio è tenuta in piedi da 7 società, le altre 13 fanno contorno, ma hanno diritto di voto e molto spesso condizionano lo sviluppo di una forte e imprescindibile vision».
Fonte: CdS