Il calcio femminile fermo dopo l’ipocrisia Mundial

 Un campionato muore, e il massimo del cordoglio che si sente espresso in giro è che si tratta di «una decisione sofferta» (Ludovica Mantovani, presidente Dfc) e di «una nota negativa» (Gabriele Gravina, presidente Figc). Nessuna protesta, nessuno slogan, neanche un tifoso che s’arrabbia sui social. Basterebbe questa banale, empirica osservazione a definire la profondità del divario che separa, in Italia, la condizione del calcio maschile da quella del calcio femminile. Divario che certo non sorprende nessuno, troppo radicata e secolare la tradizionale attività pallonara, e soprattutto troppo pronunciato ormai il profilo dello showbiz – calciatori trattati come divi più che come atleti, società sportive organizzate come imprese – per immaginare che pochi anni di esibizione muscolare fossero sufficienti alle donne calciatrici per uscire dalla loro posizione di nicchia, se non proprio di subalternità. Casomai sorprende, o almeno offre spunti di riflessione, l’entità del divario: la profondità appunto che neanche una vetrina internazionale, la più importante possibile, quei Mondiali che si sono svolti in Francia appena un’estate fa, è riuscita minimamente a colmare, né agli occhi della sempre famelica «industria» dello sport né a quelli dell’opinione pubblica, del popolo dei tifosi. 

È passato un anno esatto da quell’evento tanto scintillante e tanto strombazzato: e certo quello che è successo negli ultimi mesi impedisce di classificarlo come un anno qualsiasi, l’emergenza mondiale che ha stravolto le vite di tutti ci ha imposto nuove scale di valori e nuove priorità. Perciò può sembrare una piccola cosa, questa decisione del Consiglio federale della Federcalcio di mettere la parola fine al campionato di calcio femminile, interrotto quando mancavano solo sei giornate al suo termine naturale, senza assegnare quindi lo scudetto 2019-2020 e affidando agli algoritmi i piazzamenti nelle Coppe e le retrocessioni. Decisione peraltro conseguente a una precisa richiesta delle atlete, che si sono opposte risolutamente all’ipotesi di definire la classifica attraverso il meccanismo dei playout e dei playoff. «O giochiamo tutte o nessuna», è stato il messaggio – forte e chiaro, e soprattutto di segno tipicamente femminile – che le calciatrici hanno inviato alla Federazione: no ai mini-tornei che avrebbero coinvolto sei squadre su 12, perché «non vediamo come possa essere tutelato il merito sportivo con una modalità di gioco che a nostro avviso non garantirebbe la vera equità». Difficile immaginare le stesse parole scritte dalle mani dei calciatori uomini, per carità non per insensibilità dei singoli, ma perchè la solidarietà come la intendono le donne non è proprio prevista dal Dna di uno sport che è andato avanti anche la sera dell’Heysel, che non si è fermato neanche quando il tifoso Ciro Esposito era morto accoltellato da un altro sedicente tifoso, che è stato ed è allo stesso tempo oppio dei popoli e sfida seducente, gioco spettacolare e business irrefrenabile.
Perciò questo «game over» non è una piccola cosa, e sarebbe sbagliato liquidarlo come inevitabile. Se il calcio femminile si è fermato è perché le società – in gran parte le stesse in cui militano i calciatori uomini – non hanno abbastanza forza, abbastanza soldi, abbastanza interesse a portare avanti un campionato che impone nuove spese per garantire sicurezza sanitaria alle tesserate: spese che non verrebbero compensate in alcun modo, nè dalla vendita di biglietti che non si possono emettere, né dall’incasso di diritti televisivi che nessuna tv è interessata a versare in quantità adeguate, evidentemente non avendo dietro di sè la spinta di masse di tifosi in spasmodica attesa. Inutile dire che di fronte agli stessi identici problemi – naturalmente con numeri enormemente superiori – il mondo che si muove intorno al calcio maschile ha faticato giorno e notte pur di arrivare alla soluzione che  consentirà, il 20 giugno, la sospirata ripresa. Ora le donne in calzoncini chiedono riforme, chiedono che i mesi che mancano al fischio d’inizio del nuovo campionato vengano impegnati nella individuazione di un modello di sostenibilità che permetta loro di giocare da professioniste: indicano strade e ostentano ottimismo, o almeno non si perdono in polemiche e lamentazioni sterili come certamente accadrebbe nel mondo dei loro colleghi maschi. Tre o quattro mesi dunque, e in mezzo importanti impegni della Nazionale, per capire se il calcio femminile potrà brillare di luce propria, se potrà guadagnarsi i galloni di attività sportiva maiuscola, rilevante, rispettata. O se si accontenterà di essere per sempre quello che in fondo è adesso: il lato b del disco più gettonato. Marilicia Salvia (Nella 1/a foto) (Il Mattino)

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