Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Dentro la storia”

Il viaggio incominciò con un gol. In una notte novembrina di qualche tempo fa. Fu l’ incipit. Quella sera si aprì un sentiero luccicante. Lastricato da piccole fiaccole che squarciarono il buio dell’anonimato. E tracciarono la strada. Una strada in salita ancora, certo. Ma dalle terrazze della quale, adesso che si è ben oltre la metà del crinale, di tanto in tanto, si scorge un panorama mozzafiato. Fatto di stadi leggendari. E di imprese da compiere. Stadi leggendari, come quello nel quale, in quel crepuscolo di novembre, iniziò il nuovo viaggio. Fu ad Anfield Road. Che il Napoli, il nuovo Napoli che sorgeva dalle ceneri di quello ripiegato ordinatamente nelle memorie di tifosi, che ne avevano vissuto la breve, brevissima, ma incantata storia, si ridestò improvviso dal sonno nel quale era piombato. Lo ridestò il tocco lieve ed altrettanto incantato di un principe argentino, venuto dopo un Re. Quel principe si chiamava Ezequiel Lavezzi. Per tutti resterà eternamente “El Pocho”. Nella città dove per un calciatore, guadagnarsi un nomignolo, significa restare per sempre nella sua storia sportiva. Fu nella notte di Anfield, Liverpool, nel nord del Lancashire, nella città dei Beatles. Era stato zero a zero, nella partita di andata. Il sorteggio di Europa League, aveva composto un girone morbido per gli azzurri. Utrechet e Steaua Bucarest. E poi il lampo della fenice. Orgoglioso. Fiero. Leggendario. Il Livderbird, l’uccello simbolo del club in rosso, ad impreziosire un raggruppamento altrimenti anonimo. Il Liverpool. Che evocava notti europee antiche. Notti da televisori in bianco e nero. Tasti e manopole. Per sintonizzarsi su canali perduti nella memoria di appassionati di calcio estero. Visibile a pochi. Centellinato. Senza orge. Fu ad Anfield. Che incominciò. Nel match di ritorno. Nello stadio dove You ‘ll never walk alone risuona potente come il mantra calcistico oggi più acclamato dai patiti di football. A coronamento di un primo tempo nel quale gli azzurri si vestirono da grandi. Al cospetto dei giganti. Lillipuziani che imbavagliarono il Gulliver rosso. Quasi abbattendolo. E’ vero, era quella sera un Liverpool incompleto, almeno fino ad un certo punto. Torres in tribuna, Gerrard, il potente capitano con la 8 marchiata a fuoco sulla schiena, in panca. Alla domenica il Liverpool avrebbe avuto il Chelsea. Turn over. Come si dice, no? Ma Anfield era sempre Anfield. Accadde lì. Nella matura interpretazione di una prima frazione condotta in cattedra. E sotto lo spicchio dei tifosi in azzurro. Posto di fronte alla Kop. La curva celebre nel mondo. Quella degli scousers. Come la B a Napoli. Perchè lo spirito a Liverpool come sotto il Vesuvio è il medesimo. Una squadra, un popolo. E fu giusto accadesse lì. La palla la veicolò Cavani. Con un colpo di testa pennellato in controtempo. Nello spazio. Per Lavezzi. Che si lanciò nel pertugio. Facendo il vuoto in un amen. Con due falcate. Carragher si piantò, ed il Pocho ebbe prato libero. Fino al cospetto di Reina, che un giorno avrebbe avuto medesima accoglienza da principe, al San Paolo. Lavezzi accarezzò la sfera. Con un tocco d’ interno. Sul palo lungo. Reina allungò solo la gamba. Inutilmente. Si udì lo strepito. L’ urlo raddoppiò di intensità. Al cospetto di un luogo sacro. Un urlo come uno strillo. Lavezzi corse sotto il settore. Pareva un Sansone che aveva appena abbattuto le colonne del tempio. Fuggendo via e capovolgendo la storia. Lasciando sotto le macerie, nel silenzio immoto di Anfield le maglie in rosso. La Kop. La leggenda. Arpionando pezzetti di gloria con cui cibarsi. Fu un momento bellissimo. Vedere il Napoli in vantaggio. In uno stadio da sogno. Certo, poi nel secondo tempo le gambe divennero molli. Anfield fece Anfield. E dalla panca si alzò il dio del tuono, con la maglia numero 8 tatuata sulla pelle. E ne fece tre. In poco meno di dieci minuti. Vincendo da solo. Ma cominciò lì. Se ne ricordi, il Napoli, quando uscirà dal sottopasso del Nou Camp…
a cura di Stefano Iaconis
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