Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Cavallo pazzo”

Crazy Horse, Cavallo Pazzo, fu un grande capo indiano della nazione Sioux. Divenne celebre durante le guerre di frontiera americana, quelle della conquista del West, culminate nel massacro del generale Custer sulla collina di Littlebighorn. I sioux lo consideravano posseduto dal grande Spirito, e lo rispettavano, a causa della sua vena di autentica follia, e gli attribuirono poteri magici. Come quello di risultare invulnerabile alle pallottole dei soldati in blu. Giorgio Braglia, “Cavallo Pazzo” anche egli, viene ricordato, a Napoli, con il medesimo rispetto. E quando si pronuncia il suo nome, lo si fa con una gemma di autentica malinconia. Ed un sorriso di nostalgia. Braglia, modenese di nascita, figlio di calciatori imparentati con Sentimenti quarto, un altro che a Napoli lasciò ricordi indelebili, ha lasciato il suo cuore sotto il Vesuvio. Per sua stessa ammissione non è mai stato tifoso di alcuna squadra. Anzi no, una squadra gli ha fatto perdere la testa: il Manchester United. Per via di George Best, l’ala irlandese dalla lunga chioma, che aveva scelto come idolo incontrastato da emulare. Ma subito dietro il mito dei diavoli rossi, collocò il Napoli. Ed i suoi tifosi. Accadde subito dopo la stagione 74/75. Quella colorata da una magia che sul finale divenne stregoneria. In quell’anno, Braglia, visse un momento di assoluta onnipotenza. Si presentò al San Paolo con una tripletta all’Ascoli. Finendo per realizzare 12 reti, alla fine del torneo. Un bottino che gli valse il quarto posto nella classifica dei marcatori del torneo. Segnò anche un indimenticabile gol nel 4 a 0 al Verona nella finale di Coppa Italia all’Olimpico. In una notte straordinaria che consegnò il secondo trofeo nella storia del club. Braglia, nei tre anni durante i quali si esibì con la maglia azzurra, creò la leggenda del suo soprannome. Quello del capo Sioux. Dotato della capacità di tirare sia di sinistro che di destro, e di un eccellente colpo di testa, oltre che di una velocità invidiabile, fece onore al suo nomignolo. Capace di gol impossibili, era altresì capace di sbagliare a due metri dalla porta. Il pubblico, quando Giorgio Braglia si impossessava della sfera, tratteneva il respiro. Talvolta anche per lungo tempo. Una volta, contro la Lazio, dribblò mezza squadra presentandosi al cospetto di Felice Pulici. Lo saltò andando verso l’ esterno, ma nell’attimo di depositare la palla in rete, da posizione angolata, perse uno scarpino. Lasciò che la palla scivolasse sul fondo. Per recuperare la scarpa. Un’altra volta, in un trentaduesimo di finale contro la fortissima Torpedo Mosca che, all’andata, aveva schiacciato gli azzurri in Russia con un 4 a 1 cui fece seguito un inutile 1 a 1 a Fuorigrotta, realizzò un gol incredibile. Su uno spiovente proveniente dalla destra, saltò per colpire la sfera di testa, finendo per mancarla completamente. La palla scivolò lungo il suo corpo e battendo sul suo piede proteso per il salto, si infilò in porta. Ma era capace di avvitarsi in area, in mezza girata, qualunque fosse il piede, e con una torsione impossibile, mirare l’angolo più lontano. La sua chioma al vento entusiasmava. Il suo dribbling, semplice, anche primitivo come istinto, in barba alla tecnica, era un gorgo che sorgeva improvviso al centro dell’azione. Si gettava la palla avanti e correva. Ed il pubblico si alzava in piedi. E lo accompagnava. A volte fino in porta. Giorgio Braglia era dolce. Un eroe romantico. Infiammava i cuori, guidava assalti. Come fosse su un pony maculato. A galoppare in circolo. Intorno ai conestoga. L’ ho rivisto qualche tempo fa. In tv. Settantenne. La stessa zazzera lunga, i baffoni. Non aveva le piume tra i capelli. Anche se, giurerei di avergliele viste. 
a cura di Stefano Iaconis
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