Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Al 79° Di Canio”

Li chiamavano gli invincibili. Vestivano di rossonero, ed al loro apparire le squadre avversarie erano percorse dagli strali della paura. Nel loro dna scorreva il sangue vincente del loro tecnico dalla mascella quadrata. La mascella formidabile cara a Cesare. Gli invincibili erano quelli del Milan. Una potente legione che non conosceva sconfitta. Il loro Cesare che li guidava in Italia ed Europa, a raccogliere messe di trofei, era Fabio Capello. Marzo è mese di Idi. E quel giorno in cui gli invincibili si presentarono al San Paolo, era un giorno di marzo. Il 27 marzo del 1994. Le idi tramontate da poco tempo. Quel Milan resterà nella leggenda. Era il Milan dei 58 risultati utili consecutivi. Dei 949 minuti di imbattibilità del loro ragno nero, Sebastiano Rossi. Era il Milan che, da lì a qualche settimana, avrebbe schiantato, nella notte di Atene, un’altra squadra composta da Immortali. Il Barcellona. Lo avrebbe fatto con un 4 a 0 da scolpire negli annali. Ma quel giorno, sotto un bellissimo sole di inizio primavera sul golfo, i rossoneri furono battuti. Da un Napoli poco ricordato oggi. Molto per quel pomeriggio. Un Napoli che navigava tristemente nel fiume del centro classifica. Ma che trovò una giornata indimenticabile. Una giornata che ancora oggi viene ricordata con gli occhi lucidi ed un sorriso largo così. Il Milan era primo. Primissimo. Veleggiava bordeggiando con i suoi nove punti di vantaggio sulla solita Juventus, e si avviava a vincere il suo terzo scudetto consecutivo. Entrando così nella storia. Fino al momento nel quale la clessidra del tempo arrestò la sua corsa di sabbia, per fermare le sue lancette sul minuto 79, la partita era stata scialba. Con il Milan ad esibire le uniche occasioni da gol, ed il Napoli che badava a non esporsi. Un palo di Papin, in avvio, un altro legno di Simone, ed un prodigio di Taglialatela ancora su un guizzo dell’ala. Dominio Milan. Con qualche sonnolenza. La seconda frazione che filava via liscia. Sbadigliosa. Il sole a scaldare il pubblico ed illuminare il prato. Fino al momento nel quale Di Canio, destandosi dal torpore, aveva impegnato Rossi in una parata sotto la traversa. Appena prima che si accendesse la magia sul San Paolo. Era parso il presagio. Un fremito si arrampicò sugli spalti. Percorrendo come una polvere fatata benevola ogni settore dello stadio. Ed ecco che Buso partì in volata, accentrandosi. Scambiò alla meglio con Fonseca e poi arcuò il destro fendendo il campo come una lama. In verticale. La palla si posò dinanzi ai piedi di Paolo Di Canio, lanciato in un corridoio alle spalle della difesa rossonera. Di Canio fu costretto a decentrarsi, nella mezzaluna dell’area di rigore, stretto nella morsa di Panucci e Baresi. Che, sebbene trafelati, ebbero la capacità prodigiosa di rimontare nella corsa. Di Canio allora eseguì una finta a rientrare, puntando verso l’interno. E fu seguito armoniosamente dai due difensori che si adeguarono al movimento. Come in un balletto. Paolo, sia lode al suo nome per quell’ emozione eterna che donò quel pomeriggio, puntò di nuovo l’esterno. Portandosi la palla sul sinistro. Sono certo che nessuno riuscì a distinguere l’esatto momento in cui la geniale ala destra fece partire il tiro. Da posizione impossibile. Con il piede sollevato di Baresi ad ostruire la visuale ed il tentacolare Rossi a coprire il suo palo. Ma si vide, come un’ onda anomala sequenziale la curva saltare per aria come una Santabarbara nella quale avessero lanciato una torcia. Poi la seguirono i distinti, e via via tutto lo stadio. In un urlo deflagrante. Immane. Animalesco. Senza ragione alcuna. La follia. Mentre la palla si addormentava nella rete, i rossoneri, sbigottiti, si guardavano l’ un l’altro e Paolo, grondando gioia, sfilandosi la maglia, correva sotto i tifosi napoletani. Durò assai. Moltissimo. Tanto che Longhi, l’arbitro, dovette recarsi personalmente a districare il groviglio lacoontico di maglie azzurre, fotografi, raccattapalle, inservienti, che impazzivano dentro un mucchio al centro del quale giaceva Di Canio. Sepolto da strati di gioia. Apparve uno striscione. Improvviso. Nella curva A. Citava: “Al ’79 di Canio”. Il sole ne illuminò la stoffa e le lettere scritte alla meglio. Fu un epitaffio formidabile. E fu meraviglioso.

a cura di Stefano Iaconis

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