Esiste una versione dell’Unità italiana poco attenta a non ferire l’orgoglio dei Borbone, peraltro raccontata da un fanatico dei Borbone: Giuseppe Buttà era il cappellano militare del nono battaglione cacciatori di Francesco II, cui rimarrà fedele sino alla fine. Scrisse un memoire di cinquecento pagine dal quale si evince che i mille di Garibaldi riuscirono nella loro impresa perché trovarono un regno governato da una capitale, Napoli, corrotta e incline al tradimento. Prendendo spunto da questo documento rimasto pressoché sconosciuto lo storico catanese Alfio Caruso ha scritto Garibaldi, corruzione e tradimento (Neri Pozza, pagine 320, euro 18), un libro che si inserisce in un dibattito mai chiuso, ma particolarmente acceso in questo periodo in cui un sano sentimento identitario viene confuso a Napoli con un’identificazione nella stagione dei Borbone.
Professore Caruso, prima causa della fine del regno delle due Sicilie fu davvero il tradimento di Napoli e del regno delle Due Sicilie?
«Napoli tradì in massa, passarono con i piemontesi tutti, convinti che il regno fosse destinato a cadere. Possiamo dire che Cavour, tramite il suo ambasciatore, si comprò anche i palazzi e i marciapiedi. Nel 1860 a Napoli scorse un fiume di denaro incalcolabile. Abbandonarono il sovrano i suoi parenti più stretti, tutti i nobili e gli ufficiali. L’unica persona a rimanergli vicino fino alla fine fu la moglie Maria Sofia, che lo tradì solo sentimentalmente».
L’esercito borbonico era debole?
«Era inaffidabile. Contava sulla carta novantamila soldati, contro i mille di Garibaldi sarebbe stato uno scherzo vincere. Sarebbe stato, ma era comandato da generali arrivati a quel grado non per meriti ma perché, come si usava a Napoli, compravano le cariche. Nel libro faccio l’esempio di Landi».
Chi era questo Landi, Caruso?
«Un generale napoletano che se avesse impiegato tutti i suoi uomini avrebbe sgominato i garibaldini in poche ore in quella battaglia cruciale che fu Calatafimi. Invece ne schierò trecento, che contro i mille ovviamente persero».
Perché questo errore?
«Landi era vecchio e di salute cagionevole, già come ufficiale si era rivelato mediocre, figurarsi da generale con una responsabilità di comando».
Il re non si accorse di essere circondato da inetti e traditori?
«Francesco II era troppo giovane e ingenuo, se ne accorse troppo tardi, quando a settembre del 1860 si concesse con la moglie una passeggiata in città senza scorta. Grandi scappellate e vistosi ossequi, ma nemmeno un cane a lanciargli un evviva come succedeva sempre».
Che città trovarono?
«Intenta ad accogliere i garibaldini e a evitare ogni disordine. Il re notò che dalla farmacia reale alcuni operai erano intenti a rimuovere i gigli dello stemma borbonico, che le botteghe di Napoli si erano portate avanti e accanto ai ritratti di San Gennaro avevano già messo in vendita quelli di Garibaldi. Rientrati a palazzo, Francesco e Maria Sofia trovarono soltanto i servitori: marchesi, conti, duchi, baroni, questuanti, dame e cavalieri se l’erano svignata».
Francesco II capì di essere spacciato?
«Si ritirò a Gaeta. E pensare che avrebbe potuto legittimamente e legalmente chiedere l’annessione del regno sabaudo a quello delle due Sicilie marciando lui su Torino, considerando la sua discendenza per via materna dai Savoia. Suo nonno era Vittorio Emanuele I. In una disputa legittimista Francesco II aveva più titoli dinastici di Vittorio Emanuele II».
Forse non lo fece perché le casse del suo regno erano ricche e quelle del Nord povere, non gli conveniva.
«Non fu una questione di calcoli, semplicemente non aveva la statura di un sovrano. E poi puntualizziamo. Il Sud aveva un grande avanzo di cassa perché i Borbone non spendevano neanche un soldo per il bene del popolo, niente per le strade, niente per le scuole, niente per i servizi».
E i tanti primati come la prima ferrovia?
«Serviva agli interessi personali dei regnanti».
Lo sviluppo dell’industria cantieristica navale?
«Operava in regime di monopolio, per servire la flotta, non perché avesse delle commesse private».
E la camorra? Che ruolo ha giocato?
«Cresciuta e ingrossata durante il regno borbonico, la camorra diede un grosso contributo all’Unità, mantenendo l’ordine e imponendo a caffè, ritrovi, osterie, teatri di rimanere aperti per tranquillizzare il popolo. Se c’era qualcuno che inneggiava al re, subito veniva pestato a sangue». A cura di Ugo Condari (Il Mattino)