Bagni: “Il calcio è uno splendido gioco. Le dirette televisive alleggeriscano le nostre tristi giornate”

Lunga intervista al Corriere dello Sport all'ex centrocampista di Napoli e Inter

Quante vite ha vissuto, neanche lo sa più: ma quel «ragazzino» di 63 anni, che ti travolge con la sua energia e che ti sorride sempre, se ne sta ora raccolto con i suoi pensieri a scrutar se stesso. «Non mi sembra vero, a me che viaggio sempre». Salvatore Bagni dorme poco, alle cinque e trenta è già sveglio, poi sistema il proprio vissuto nelle stanze della sua villa di Gatteo a Mare e li smonta, li ricompone, li accarezza, nonostante tutto: solo per caso, appuntamento per il 10 maggio, trentatré dal primo scudetto del Napoli, in realtà è semplicemente un modo per ritrovarsi, per dialogare, per divorare questo tempo sospeso e riempirlo d’una esistenza da «guerriero» dalla cui narrazione rimane accantonato Maradona, tenuto rispettosamente ai margini di una vicenda personale. Ma Bagni che sa (anche) gigioneggiare e non prendersi mai sul serio, poi si apre e lascia che si scorga la sua espressione, nascosta dietro una maschera, e lasciando che il suo dolore, per un figlio perduto, diventi nostro, vostro. E che quell’allegria sua proverbiale si trasformi come in un rifugio.

 

FIGLI DI UN DIO MINORE

Bisogna trovare il modo di «rinascere», se così si può dire, per non ritrovarsi paralizzati e senza un domani: la Germania ha lanciato un segnale di luce, e può essere inseguito fisicamente, ma non come se fosse un aquilone. Quelli scappano sempre via. «Spero che si torni a giocare, chiaramente in sicurezza. Perché il calcio è un splendido gioco ma anche una formidabile azienda che produce economia. Non fermiamoci ad osservare i fuoriclasse, pensiamo un po’ alle figure che hanno meno visibilità e stipendi normalissimi. O ai calciatori di B, alla serie C, ai tornei su quali comunque gli effetti della serie A sarebbero positivi. Mi auguro che esistano le condizioni e che dunque la tv possa anche alleggerire, con le dirette, questa fase di tristezza. Ma queste sono cose da scienziati e da politici, non da me».  

UN’AQUILA

Facciamo un gioco, così per distrarci un po’, e lasciamo che si provi a intuire cosa potrebbe succedere se per caso, presto o tardi, ci fossero ancora un arbitro e ventidue calciatori. «Lo scudetto potrebbe vincerlo la Lazio e mi farebbe anche piacere, perché io ho avuto modo, all’epoca di Cragnotti, di fungere da consulente esterno di quel club e ci sono stato bene». 

 

CHI SONO STATO

 Un giovanotto si aggira per i campi di calcio, però non ha un futuro o forse non lo vede, non lo sente. Non sa che sta per cominciare la sua favola, proprio mentre ha cominciato a guardarsi intorno per capire cosa fare da grande. «Avevo 18 anni, nessuno si era accorto di me. Giocavo nel Kennedy, al Carpi, e ormai pensavo che si stesse facendo tardi. Mi immaginavo metalmeccanico, come tanti amici miei. Poi un giorno Giorgio Forghieri, al quale vorrò bene sempre, mi chiama e mi stimola: riteneva fossi un giocatore non si spiegava perché non avessi avuto una chance. Stavo per smettere e mi trovai al Carpi, guadagnavo cinquantamila lire, mi sembravano anche tanti. E in appena due stagioni solo al Perugia: dieci milioni al mese quasi». 

IMBATTIBILE

 Non s’era mai visto sino al ’78 che ci fosse una squadra di «invincibili», trenta giornate da imbattuta. Però Perugia, la sana provincia, è capace di resistere a chiunque e di piegarsi solo dinnanzi alla stella del Milan di Liedholm. «D’Attoma, il presidente, aveva uno stile e una classe più unici che rari e seppe sempre sussurrami le parole giuste. Io ero dentro a un sogno, ormai: dalla fabbrica mi ritrovai in Under 21. Carattere estremo, anche nelle decisioni. Dovevo andare a Lecce, per una sfida con la Polonia e pensai che sarei riuscito ad arrivare in tempo anche allungandomi prima a Roma, sul camion di un mio amico, che altrimenti avrebbe dovuto affrontare il viaggio da solo. Non andò, ovviamente, come avevo previsto e in treno, da Termini al Salento, ho impiegato quasi un giorno, con i vari ritardi e le coincidenze perse. Arrivai alla convocazione con ventuno ore di ritardo». 

 MI METTE IN MEZZO

Un’ala, così si diceva all’epoca, che diventa mediano: come se Chiesa o Callejon, se Bernardeschi o Douglas Costa, si inventassero un nuovo modo di essere se stessi e venissero messi in mezzo. «Marchesi mi ha cambiato. Al Perugia, ero un’ala o una seconda punta, ero uno che segnava, ventiquattro in un centinaio di partite. Ma un giorno, eravamo in ritiro, amichevole contro una selezione locale, Marchesi viene in camera e mi dice: «ti provo da mediano». Non feci una piega: «se lei vuole, così sia. Ma a un altro avrei detto di no». Non sapevo che mi sta concedendo un futuro inimmaginabile, perché Salvatore Bagni, puoi scriverlo tranquillamente, non ha mai sbagliato due partite consecutive». 

 

GLI AFFARI PERDUTI

Ridiamoci su, senza che ci sia malizia, né il desiderio di sottolineare un abbaglio: succede nel calcio, ma anche altrove, di smarrirsi in un enorme prato verde. «All’Inter mancò il coraggio nel 2011, quando Zeman non aveva ancora fatto di Verratti il giocatore che poi è diventato. Il Pescara mi spinse a cercare estimatori per quella mezzala, penso di ricordar bene d’averne parlato con Peppe De Cecco e il dg Lucchesi. Con Moratti bastarono tre parole: presidente lo prenda. Avevamo concluso, cinque milioni di euro. E al mattino successivo, invece, dallo staff tecnico gli fu consigliato di aspettare o trattare ancora, perché secondo loro sarebbe costato troppo. Kessié venne proposto al Milan, prima che andasse all’Atalanta, per trecentocinquantamila euro: l’hanno acquistato quattro anni dopo, a trentadue milioni di euro».

 

IL DRAMMA

Non è vero che chi muore giovane è caro agli dei. E’ un profonda, terribile, inaccettabile sentenza del destino, un’atrocità che Salvatore Bagni ha dovuto affrontare, con moglie e figli, e che ora trascina con la dignità di chi non può far altro che sopravvivere a se stesso. «Io ho una famiglia spettacolare, che porta dentro di sé il dolore per una tragedia che non ha una fine. Dopo l’incidente in cui perdemmo Raffaele, sono cambiato per un po’, ho finto di essere scorbutico, scortese: pensai che potesse essere quella la soluzione per fronteggiare il dolore, indurirmi, indurirci. Ci è toccato anche la sofferenza egualmente atroce del trafugamento della salma. Ma io, mia moglie Letizia, Elisabetta e Gianluca abbiamo valori forti, siamo riusciti a resistere, non è stato semplice e non lo sarà. Viviamo nel suo rispetto, per lui che non c’è più, e anche del nostro che siamo qui a rimpiangerlo.» 

A cura di Antonio Giordano (CdS)

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