Com’era prevedibile, due mesi di frequentazione intensiva dei fornelli ci hanno sfiancato. Così appena si è allentato il lockdown, tutti di corsa a ordinare cibi da asporto, subito dopo il primo caffè assaporato in un bicchierino di plastica più fragrante di una tazzina di Limoges. Ma non azzardatevi a considerare il food delivery una pratica contro natura, la negazione del cibo buono e giusto, l’abisso finale del gourmet. I napoletani proprio no, non possono farlo. Siamo noi ad aver inventato nell’Ottocento la figura del pizzaiolo ambulante, il più rappresentato nell’iconografia ottocentesca pur essendo il meno pizzaiolo di tutti, limitandosi infatti solo a vendere le tre specialità base (pomodoro origano e pesciolini, pomodoro mozzarella e basilico, aglio origano e pomodoro).
Anche se il cosiddetto cibo di strada non è nato necessariamente al Sud, è qui che ha preso colori e umori e profumi di intensità straordinaria. Si può dire che un filo rosso lega le cauponae e le tabernae pompeiane, dove i
Oppure, per un soldo, c’era a disposizione la piccantissima addorosa, addorosa, a spiritosa. Così gridava l’oste offrendo al pubblico le pastinache gialle cotte in acqua e poi messe in salsa forte di aceto, origano, pepe, aglio e peperoni. Un secolo prima (1787) già Goethe aveva descritto l’animata vita di strada partenopea, caratteristica di un popolo che non avendo cucine ben attrezzate ricorre a due risorse: i maccheroni e i friggitori di pesci e frittelle. I fratelli di Sicilia, si sa, sono ben noti anch’essi per i coloratissimi mercati di cibo dove si distribuiscono pani ca meusa (pane e milza) e panelle di farina di ceci, mentre gli ambulanti ancora consegnano anche a domicilio lo sfinciuni, focaccia con pomodoro, formaggio, olio, cipolla, acciughe.
In Malesia, secondo la Fao, la vendita dei cibi per strada totalizza un giro di affari di enorme valenza economica, secondo solo a quello delle componenti elettroniche. A partire dal Novecento, i pranzi da asporto sono state una componente essenziale anche delle classi lavoratrici urbane dei paesi industrializzati, a partire dagli Stati Uniti. Quasi superfluo ricordare i cartoni di pizza ai peperoni, sushi o pollo fritto che abbiamo condiviso virtualmente con famosi attori al cinema o guardando la tv. Sempre la Fao valuta attorno ai 2,5 miliardi le persone al giorno che si alimentano in questo modo. E non è detto che si tratti sempre di junk food, cibo spazzatura. Ad esempio, le razioni alimentari dell’esercito Usa durante la Seconda Guerra Mondiale sono state un modello esemplare di cibo preconfezionato. Lo studiarono il fisiologo Ancel Keys e sua moglie Margareth Haney, seguendo la dieta povera di grassi delle popolazioni del Sud Italia, antidoto naturale all’aumento del colesterolo. Come è finita lo sappiamo bene. Keys, vissuto a Pioppi nel Cilento fino alla veneranda età di 100 anni, è unanimemente considerato il padre della dieta mediterranea.
A cura di Santa Salvino (Il Mattino)