Il Mattino – L’asporto a Napoli tre secoli di storia

Com’era prevedibile, due mesi di frequentazione intensiva dei fornelli ci hanno sfiancato. Così appena si è allentato il lockdown, tutti di corsa a ordinare cibi da asporto, subito dopo il primo caffè assaporato in un bicchierino di plastica più fragrante di una tazzina di Limoges. Ma non azzardatevi a considerare il food delivery una pratica contro natura, la negazione del cibo buono e giusto, l’abisso finale del gourmet. I napoletani proprio no, non possono farlo. Siamo noi ad aver inventato nell’Ottocento la figura del pizzaiolo ambulante, il più rappresentato nell’iconografia ottocentesca pur essendo il meno pizzaiolo di tutti, limitandosi infatti solo a vendere le tre specialità base (pomodoro origano e pesciolini, pomodoro mozzarella e basilico, aglio origano e pomodoro).
Come racconta Matilde Serao, quando la domanda scarseggiava c’erano pure i prezzi ribassati. E per non far ghiacciare le pizze molti venditori si attrezzavano con le famose stufe, contenitori di metallo che conservavano calore e fragranza più a lungo. I meno professionali si accontentavano di tavolette di legno e un cavalletto pieghevole. Venditori girovaghi più che pizzaioli, scriveva Alexandre Dumas, pronti a riconvertirsi d’estate come mellonari. Comunque, visto che molti locali erano antri inadatti a una sosta lunga, spesso la pizza ce la piegavamo a libretto consumandola in strada, un take-away che dura ancora oggi soprattutto nel centro storico. Né, spero, avrete dimenticato la cerimonia della pizza fritta on the road, nel basso davanti al focone, il fornello a carbone che sviluppava quella economia del vicolo celebrata al suo massimo splendore da donna Sofia Loren nell’episodio de L’oro di Napoli tratto dal libro di Giuseppe Marotta.
Anche se il cosiddetto cibo di strada non è nato necessariamente al Sud, è qui che ha preso colori e umori e profumi di intensità straordinaria. Si può dire che un filo rosso lega le cauponae e le tabernae pompeiane, dove i passanti ordinavano e consumavano pane al lardo e frittelle con formaggio di pecora e miele, ai chioschetti popolari di Porta Capuana dove fin dal Quattrocento si beveva o broro e purpo, dove si consumavano i taralli ‘nzogna e pepe nati nel Settecento dallo sfriddo della pasta lievitata, dove le postazioni degli acquaioli che offrivano acqua zuffregna si alternavano alle caldaie delle trattorie di strada che vendevano maccheroni con sugo di pomodoro e cacio piccante di Crotone. Street food anche quello, a due e tre soldi, che il popolo napoletano chiamava brevemente nu doje, nu tre, come ricorda Serao ne Il Ventre di Napoli.
Oppure, per un soldo, c’era a disposizione la piccantissima addorosa, addorosa, a spiritosa. Così gridava l’oste offrendo al pubblico le pastinache gialle cotte in acqua e poi messe in salsa forte di aceto, origano, pepe, aglio e peperoni. Un secolo prima (1787) già Goethe aveva descritto l’animata vita di strada partenopea, caratteristica di un popolo che non avendo cucine ben attrezzate ricorre a due risorse: i maccheroni e i friggitori di pesci e frittelle. I fratelli di Sicilia, si sa, sono ben noti anch’essi per i coloratissimi mercati di cibo dove si distribuiscono pani ca meusa (pane e milza) e panelle di farina di ceci, mentre gli ambulanti ancora consegnano anche a domicilio lo sfinciuni, focaccia con pomodoro, formaggio, olio, cipolla, acciughe.
Forse la definizione non vi piace, ma il cibo da asporto è un fenomeno vecchio come il mondo, specie nelle grandi città. Esiste da sempre in Cina, e si è mantenuto in Asia anche in paesi post-industriali come il Giappone. Anzi, si dice che è proprio nelle cucine da campo nelle strade di Tokyo che si mangiano le zuppe migliori.
In Malesia, secondo la Fao, la vendita dei cibi per strada totalizza un giro di affari di enorme valenza economica, secondo solo a quello delle componenti elettroniche. A partire dal Novecento, i pranzi da asporto sono state una componente essenziale anche delle classi lavoratrici urbane dei paesi industrializzati, a partire dagli Stati Uniti. Quasi superfluo ricordare i cartoni di pizza ai peperoni, sushi o pollo fritto che abbiamo condiviso virtualmente con famosi attori al cinema o guardando la tv. Sempre la Fao valuta attorno ai 2,5 miliardi le persone al giorno che si alimentano in questo modo. E non è detto che si tratti sempre di junk food, cibo spazzatura. Ad esempio, le razioni alimentari dell’esercito Usa durante la Seconda Guerra Mondiale sono state un modello esemplare di cibo preconfezionato. Lo studiarono il fisiologo Ancel Keys e sua moglie Margareth Haney, seguendo la dieta povera di grassi delle popolazioni del Sud Italia, antidoto naturale all’aumento del colesterolo. Come è finita lo sappiamo bene. Keys, vissuto a Pioppi nel Cilento fino alla veneranda età di 100 anni, è unanimemente considerato il padre della dieta mediterranea.
Visto che in tempi di pandemia il food delivery è la parola d’ordine che ci sta salvando dalla schiavitù della cucina quotidiana, è bello anche ricordare che l’antenato dei colossi digitali che forniscono oggi servizi di cibo preconfezionato non nasce sul mercato occidentale ma è il Dabbawala, che in hindi significa persona che consegna il pacco. Nata nel 1890 a Bombay, sotto il dominio britannico, questa forma di delivery è stata la prima azienda di cibo a domicilio. Per gli inglesi che non amavano molto la piccantissima cucina locale fu creato un apposito servizio di delivery consegnato in un lunch box. Puntualissimi ed efficienti i rider di allora, anch’essi in bicicletta, ma anche pendolari sui treni della rete ferroviaria, con carrozze apposite, dalle quali in ogni stazione consegnavano i pacchi al dabbawala locale che li smistava ai destinatari.

A cura di Santa Salvino (Il Mattino)

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